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Scuotiamoci

07 Agosto 2012

Il finale di partita si sta avvicinando. Lo scambio tra cessione di sovranità, che la Bce impone ai paesi mediterranei in recessione, e generose iniezioni di liquidità, che i mercati festeggiano come annuncio di ulteriori spazi d’azione, mostra in piena luce il nucleo politico della crisi attuale: solo quando la terza e la quarta economia dell’Eurozona non sono più in grado di rifiutare la cessione di pezzi rilevanti della propria sovranità, solo allora la Bce accetta di impiegare con larghezza quel repertorio di strumenti a difesa della moneta – abituali per tutte le altre Banche centrali – che invece da più di un anno, ovvero dall’inizio della fase acuta della crisi, evita di utilizzare, se non con estrema parsimonia, per mancanza di consenso interno (producono – si dice a Francoforte – azzardo morale, non sono allineati all’impianto costitutivo della moneta unica).

Quel che fino a ieri appariva celato in arzigogoli tecnici e in contrasti di dottrina ora si rivela allo scoperto: la posta in gioco è il comando sulle politiche di bilancio dell’Eurozona; ciò significa, al culmine dello sbandamento nei paesi eurodeboli, trasferire fuori dai confini nazionali il design e la gestione delle operazioni necessarie per attuare in tempi brevi i parametri del Patto di stabilità. La crisi si è drammatizzata nell’estate 2011 a causa della dispersione di sovranità insita nell’architettura dell’Eurozona: i poteri inerenti alle politiche monetarie, che erano detenuti dalle singole banche nazionali, sono stati in gran parte sterilizzati (tranne l’area relativa alla stabilità e alla lotta all’inflazione) per evitare un eccesso di responsabilità strategica capace di sbilanciare il profilo di autonomia tecnica della Bce e, com’è inevitabile, un tale virtuoso vuoto di tutele ha elevato nei mercati la percezione del rischio alzando per i più esposti i costi del debito. Oggi, estate 2012, mentre la crisi si fa dirompente, il rimedio diventa la ripresa di sovranità: la dinamica europea si rovescia e dalla dispersione si passa alla concentrazione. C’è però una differenza: la dispersione è in apparenza neutrale e lascia i partner dell’euro in uno stato di parità; la concentrazione invece ha valore politico e addensa potenza nelle mani di chi detta condizioni. Alla fine del giro, dopo una fase di dispersione e di parcheggio tecnico, i pezzi di sovranità che i paesi dell’euro hanno ceduto si ritrovano concentrati nelle mani della Germania che raccoglie in sé tanto la maggiore forza economica dell’area quanto il potere ideologico di custode del pensiero che dall’origine informa il progetto di moneta unica. La crisi dell’euro si manifesta, nel momento di culmine e di svolta, come l’occasione per un esercizio di egemonia realizzato dirottando ad altri scopi strumenti concepiti (male) per un’integrazione paritaria.

Manovrata dall’egemone, la tenaglia tra forza economica e dominio ideologico lacera da un anno la fibra economica, già fragile per ragioni endogene, dei paesi mediterranei. I timori suscitati dal cattivo impianto dell’euro, inadatto a traversare fasi di turbolenza a causa della rinuncia alle tutele mantenute dalle altre monete, si focalizzano su quelli che il mercato considera gli anelli deboli di una costruzione cui non  riconosce più solidità. Gli sforzi per correggere la situazione sono messi in carico ai “colpevoli” più facili e visibili (i costi del debito in rapida ascesa sono una spia fragorosa della “colpa”), ma non sfiorano la responsabilità sistemica, che non si vede, non è monitorata dagli indici e ha comunque la protezione santificante dell’ortodossia che da tempo bolla come anti europeo ogni argomento critico verso l’impianto della moneta unica. Nasce così nel dramma dell’euro quell’iniqua divisione dei ruoli che da tempo allarga gli squilibri dell’area e peggiora la crisi.

Ai paesi deboli tocca fare i compiti a casa, per di più in gran fretta e senza curarsi troppo dei danni sociali che ciò provoca, perché la costruzione collettiva è in pericolo e solo il loro ravvedimento – ancorché sanguinoso – può salvarla; i paesi più forti si riservano di difendere l’ortodossia, occultare le disfunzioni che la dispersione di sovranità alimenta, certificare – anche contro la logica – che gli sforzi dei deboli saranno premiati.
I compiti a casa però non funzionano. Non solo mirano a correggere una situazione diversa da quella che realmente preoccupa i mercati, ovvero il pericolo insito nello status inerme dell’euro soprattutto in caso di tensione, ma fanno danni perché, volendo accelerare la corsa al pareggio di bilancio, adottano strumenti di riequilibrio (tasse, tagli di spesa in tempi molto stretti) che portano recessione e un’ironica riduzione del gettito. Il fallimento della terapia accresce il carico di colpa sugli eurodeboli: in fondo, anche se hanno fatto i compiti con la massima diligenza, sono l’unico responsabile a portata di mano e nessuno ha voglia di mettere in discussione l’ideologia dominante, soprattutto quando serve a tenere sotto pressione i debitori.
Il vento ideologico cambia all’improvviso quando appare chiaro quasi a tutti che, a forza di terapie mirate al bersaglio sbagliato, l’euro non riesce più a stare in piedi e che alla Bce occorre una nuova strategia – più liquida. La posizione politica dei debitori non è mai facile, soprattutto se la loro sovranità è frollata da mesi di terapie nocive. Infatti il prezzo della nuova strategia Bce è pagato dai debitori con la moneta della sovranità: nel momento in cui riscuote un grosso vantaggio politico, il governo tedesco, pur alzando alti e ipocriti lai, allenta l’ortodossia ideologica.

Se si fa il bilancio di un anno di crisi, sono tre i tavoli da cui la Germania, con il suo vassallo francese, porta a casa ingenti profitti. Sul tavolo politico mette sotto controllo l’area europea e così, in un mondo con vari centri di potenza dove la dimensione conta, accresce il proprio rilievo di fronte a rivali continentali come Usa, Cina, Russia, India. Sul tavolo finanziario riceve, in costante flusso, i capitali in uscita dai paesi ritenuti a rischio e stabilizza in territorio negativo i tassi del suo debito. Inoltre beneficia dei cospicui contributi, erogati dai vari paesi euro secondo criteri proporzionali, per il salvataggio delle banche in pericolo verso molte delle quali le banche tedesche hanno forti esposizioni. Infine sul tavolo economico incassa il vantaggio di poter esportare con un tasso di cambio mediato dalla debolezza delle economie mediterranee e quindi meno alto di quello adeguato alla forza specifica della sua economia. In aggiunta a questi benefici sono da registrare gli svantaggi speculari addossati, in fatto di cambio e di tassi, alle economie del sud alcune delle quali – quella italiana soprattutto – rivali nell’export (ora con handicap) e dotate di molti pezzi industriali pregiati (ora acquisibili, da Unicredit a Finmeccanica fino a parti della filiera dell’auto, in condizioni di favore).

Tutto ciò avviene per caso? Il gigante economico d’Europa è divenuto anche l’egemone politico “in un momento di distrazione”, come diceva con ironia Sir John Seeley a proposito dell’impero britannico? E’ difficile credere che il complicato rondò degli ultimi quindici mesi sia solo l’esito di un fortuito gioco di circostanze e non abbia avuto come guida un disegno strategico di stampo nazionale. Per tutto il secolo scorso la costruzione europea è stata, per l’essenziale, un gioco cooperativo: gli obiettivi nazionali non erano certo scomparsi, ma erano innestati – e circoscritti – in un contesto paritario, in tendenza anche solidarista. Alla svolta del secolo si allineano molti fattori che in Europa cambiano la percezione dei principali soggetti politici, Germania e Francia in testa: l’emergere delle nuove economie che va di pari passo con il consolidamento di centri di potenza regionale a forte impronta nazionale; lo spostamento del baricentro americano verso il Pacifico; il succedersi di bolle finanziarie tra il 1997 e il 2001 con notevole capacità destabilizzante che lasciano affiorare in Europa sentimenti di insicurezza nell’ambito economico. La Germania mette in cantiere con Schröder una vasta e dolorosa ristrutturazione del sistema produttivo e, poiché tutto ciò ha costi pubblici elevati che portano il suo deficit a sforare il limite del 3 per cento, ottiene, insieme alla Francia e con l’aiuto di Tremonti (che apre un credito politico forse non ripagato), una deroga significativa agli obblighi di Maastricht.

Parte forse da qui una mutazione genetica del processo europeo: i partner più forti mettono in secondo piano l’idea dell’integrazione paritaria e cominciano a giocare la partita dell’egemonia (oppure, nel caso della Francia, la partita dell’alleanza da finto eguale con il leader). Per farlo prendono come leva impropria il sistema comunitario (norme, apparati, organi di decisione) e lo usano quale strumento di prevalenza nazionale. Con la crisi la partita, tenuta sotto traccia finché la crescita mondiale dava spinta all’euro, si rende esplicita, Piigs diventa un termine ricorrente negli articoli di economia e i giocatori deboli, uno dopo l’altro, finiscono nell’angolo. L’Italia per lungo tempo non si accorge di nulla (o finge, per quieto vivere): e presta una fiducia un po’ sventata al tradizionale linguaggio europeista che ora però nasconde una sostanza egemonica: continua a sedere al tavolo di bridge, mentre gli altri giocatori si sono alzati e hanno cominciato una partita di rugby. In ciò contano varie ragioni: alcune élite, che considerano quasi irrimediabili i guai italiani, hanno a lungo proclamato l’idea del “vincolo esterno” pensando che solo obblighi imposti dall’estero potessero spingere a fare riforme (necessarie) per cui è scarso il consenso interno: in una fase di scontro ciò ha portato ad allinearsi a interessi altrui, con risultati non proprio brillanti; lo stato belligerante della politica interna, poi, non ha aiutato facendo credere che altri fossero i temi essenziali; anche l’impulso, ricorrente nella nostra storia, a trovare sponde esterne per regolare i conti interni ha contribuito a metterci fuori strada.

Ora le cose sembrano chiare: siamo a fine partita e l’interesse nazionale è la stella polare in tutti i paesi. I difetti di costruzione del sistema euro sono riconosciuti e le distorsioni ideologiche dell’ortodossia sono difficili da negare. L’Italia è in difficoltà, ma non ancora nell’angolo: il sistema produttivo resiste e i numeri fondamentali non sono cattivi – debito a parte. Si può avviare una politica di riscossa nazionale: all’estero, dove la pretesa di egemonia tedesca trova resistenze, e soprattutto all’interno dove un intervento di rilievo sul debito (le proposte sono molte, di prestigio e la maggior parte convergenti) è prioritario, trova consenso e può regalare ampi spazi di manovra. Si tratta di coinvolgere il paese: la voglia di riscossa è grande.

Tratto da Il Foglio