Se An è nel Pdl e Fini è presidente della Camera lo si deve a De Felice
30 Aprile 2009
Il biografo del duce volle sempre tenere la sua ricerca storiografica, in gran parte fatta di esplorazione di archivi e di memorie inedite, su un piano rigorosamente ‘super partes’ che nulla concedeva agli usi partigiani della scienza . E tuttavia fu proprio nel suo laboratorio ‘asettico’ che si posero le premesse di una nuova stagione del pensiero politico e iniziò la lunga marcia attraverso le istituzioni liberaldemocratiche di una parte della nazione che ne era stata esclusa per i suoi non rinnegati legami con l’esperienza fascista e salotina. Fatti e valori, come ci ha insegnato il fondatore dell’empirismo moderno, David Hume, appartengono a due distinti pianeti: i fatti vanno giudicati sulla base del criterio vero/falso, i valori sulla base del criterio giusto/ingiusto. De Felice aveva ragione nel chiedere ai suoi critici, soprattutto a quelli con la bava alla bocca, di confutarlo sul piano delle prove alla base delle sue tesi ‘revisioniste’ ma era innegabile che queste tesi facevano, per così dire, ‘rialzare la testa’ a una parte politica fin allora emarginata e criminalizzata. Il sasso in piccionaia lanciato dallo storico rianimò la cultura della destra radicale, attivò centinaia di iniziative —libri, riviste, convegni–, indusse Giovanni Volpe a promuovere, nella Fondazione intitolata al padre Gioacchino, non pochi memorabili incontri internazionali e a ripubblicare, nella sua casa editrice, una serie numerosa di saggi divenuti da tempo irreperibili. Va da sé che il nome che sempre aleggiava in queste riunioni era quello di Renzo De Felice: i suoi critici più feroci a torto gli attribuivano nostalgie del ventennio ma, per quanto riguardava le ricadute politiche del suo stile e metodo di ricerca, vedevano giusto. Sia pure inintenzionalmente i suoi lavori ridavano ‘dignità’ all’altra Italia, all’Italia dei ‘reprobi’ e delle masse plaudenti sotto il balcone di Piazza Venezia. Il paese in camicia nera, nell’ottica defeliciana, non era al soldo del capitalismo terriero, bancario, industriale (interpretazione marxista del fascismo), né era il residuato dell’antimoderna Controriforma cattolica (interpretazione azionista) né la vittima di una malattia morale (interpretazione liberale); era, invece, l’espressione di ‘ceti medi emergenti’, di uomini e gruppi che volevano contare e pesare sui destini della comunità nazionale e che intendevano portare a compimento il Risorgimento umiliato dalla prosa umbertina e giolittiana. Ne derivava oggettivamente, da un lato, una semi-riabilitazione, ma d’altro lato, la premessa di una autocritica ‘interna’ al popolo del MSI, che solo ora diventava possibile. Se si considerava, infatti, l’avversario ideologico come un reietto, un nemico del genere umano, lo si rafforzava nel convincimento di avere ragione: essendo intimamente persuaso di aver operato in buona fede, la negazione della sua rettitudine lo convinceva dell’assoluta malafede dei suoi nemici. Nel momento in cui gli si riconosceva qualcosa di buono (almeno nelle intenzioni), in un clima ormai sempre più lontano dai veleni della guerra civile, lo si induceva a ripensare a quel <qualcosa di cattivo> che una società liberale e democratica non poteva certo condonargli. Insomma, se la rivoluzione defeliciana, in un primo tempo, risultava altamente gratificante per reduci ai quali si negavano etica e cultura, alla lunga, recava germi di dissoluzione che avrebbero portato a Fiuggi e alla elezione di un postfascista alla terza carica dello Stato.
La classe dirigente post-belingueriana aveva, col suo revisionismo, neutralizzato il fattore K, ponendo fine all’anomalia italiana che aveva reso indisponibili, nella formazione dei governi, i milioni dei voti comunisti. Si è trattato di un grande passo avanti nell’edificazione di una democrazia ‘ a norma’. Ma l’eliminazione del fattore F (fascismo) è stato un passo ulteriore non meno importante se si pensa che i postfascisti, convertiti ai valori della società aperta, sono stati (e sono) determinanti per la vittoria di una coalizione (e domani di un partito) di centro-destra. I due arcipelaghi politici possono non piacerci, ma <questa è la democrazia, bellezza>: progressisti da una parte, conservatori, dall’altra, e ciascun gruppo col suo pacchetto di ‘riforme’che dovrebbero far avanzare il paese sulla via del benessere e della protezione dei diritti individuali e collettivi.
Deideologizzando il ‘discorso sul fascismo,’ De Felice è stato un autentico costruttore di democrazia: grazie a lui le ombre del passato non sono state più riguardate come ‘colpe morali’,<peccati contro lo Spirito>, per dirla con Benedetto Croce, ma come fatali errori politici gravidi di lacerazioni civili e di prassi liberticide. Differenza non da poco giacché degli errori si prende atto, delle colpe ci si vergogna. Se gli italiani ‘che hanno sbagliato’ e quelli ‘che hanno visto giusto’ si ritrovano oggi in uno stesso Parlamento e persino in uno stesso partito, ciò lo si deve anche a chi ci ha finalmente detto <che cosa è stato veramente il fascismo> e perché, nel bene e nel male, anch’esso fa parte della nostra storia. Era il rovesciamento dell’ideologia resistenziale posta a fondamento della Costituzione e del compromesso storico che aveva determinato l’incontro tra cattolici, comunisti e laici.
Prendendo le distanze dall’antifascismo come principio di legittimazione della democrazia (e facendo valere il principio opposto che è, invece, la democrazia il principio di legittimazione dell’antifascismo nel senso che tocca al secondo presentare le sue credenziali alla prima e non viceversa) , De Felice incontrava un altro grande solitario della filosofia politica italiana degli anni settanta/ottanta, il tradizionalista Augusto del Noce. Ad avvicinarli, però, era la pars destruens non quella construens della loro visione del fascismo, dell’antifascismo e, in genere, della storia d’Italia. Del Noce, negli anni in esame, era divenuto il teorico dell’interpretazione transpolitica della storia contemporanea, il pendant italiano e cattolico del suo prestigioso interlocutore tedesco, Ernst Nolte. Tale interpretazione <anziché vedere il vero motore della storia nella causalità materiale,nei conflitti di classe o nel progresso tecnologico> rinveniva <in tutti questi processi, certo importantissimi |..| solo la materia della trasformazione storica. La forma,che è poi l’elemento decisivo, dipende dalla visione filosofica complessiva che fornisce le categorie attraverso le quali il mutamento viene pensato. Per questo riprendendo in maniera libera una frase del giovane Marx che opponeva il farsi mondo della filosofia al farsi filosofia del mondo di Hegel> asseriva < che la storia contemporanea è la storia di una filosofia che si fa mondo;che deve perciò essere vista come storia filosofica, al modo che per la storia medioevale si parla di storia religiosa>. In questa ottica, il fascismo veniva preso tremendamente <sul serio> e, lungi dall’apparire come reazione borghese o rivincita dei ceti declassati dalla storia all’avanzata della democrazia sociale, era definito <come la piena realizzazione e il completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che ha accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e dello scientismo>. <Separato dal materialismo, spiegava Del Noce lo spirito rivoluzionario si converte in una specie di mistica dell’azione |…| ‘attivismo’; tensione verso un’azione che è voluta per sé, come semplice trasformazione della realtà, e non finalizzata a un ordine, con la conseguente retrocessione dei valori che, invece di dar significato all’azione, sono pensati valere soltanto come strumenti che possono promuoverla>. Reimmesso pleno jure nella storia d’Italia, il fascismo diventava, così, il momento realistico di quella ‘rivoluzione culturale’ contro la vecchia Italia cattolica ma altresì contro le forze ‘neutraliste’ del 1914— dove il neutralismo veniva riguardato non come contingente aggregazione di uomini e partiti contrari alla guerra ma come convergenza naturale di tutti gli oppositori dell’attivismo—avverso al momento idealistico rappresentato da Gobetti e dalla sua molteplice progenie spirituale confluita poi nel Partito d’Azione. Ad unire i <fratelli nemici>—ed era l’aspetto della riflessione delnociana più inaccettabile per l’establishment intellettuale e accademico, come avrebbero mostrato le critiche di Norberto Bobbio, che pure individuavano lucidamente aporie reali contenute nella riflessione storico-filosofica del suo vecchio amico torinese—era l’idea della grande guerra come palingenesi, liquidazione dell’Italietta umbertina e giolittiana: a dividerli era il <tradimento necessario> di Mussolini, <quella rottura tra etica e politica che è essenziale all’idea di rivoluzione>. <Il Mussolini, politico, non poteva non accedere al compromesso con l’italiano reale per radicare il suo tentativo rivoluzionario> laddove <Gobetti rappresentava invece l’assoluta intransigenza morale e si appellava perciò al moralismo de ‘La Voce’> .
Sottesa all’analisi delnociana era la critica della ‘democrazia dei moderni’, di stile anglosassone, caratterizzata da partiti chiamati a pronunciarsi <su problemi concreti, senza pretendere in modo alcuno di richiedere ai loro aderenti di pronunciarsi sui problemi ultimi>. Per il filosofo cattolico, –che vedeva in Hans Kelsen il teorico di una democrazia fondata sulla<negazione dei valori assoluti>–<l’elevazione della democrazia a valore equivale alla negazione dell’autorità dei valori> e all’affermazione della <teoria democratica della conoscenza, cioè quella secondo cui può essere tenuto per vero soltanto ciò che è da tutti verificabile>. Come può vedersi, Del Noce anticipava di mezzo secolo un dibattito che nei nostri anni sarebbe tornato di attualità—v. i dialoghi di Joseph Ratzinger non solo con Marcello Pera ma anche con Juergen Habermas, i convegni della Fondazione Magna Carta, la riscoperta dell’ispirazione cristiana del liberalismo ottocentesco—ma non erano i presupposti teologico-filosofici della sua ‘storia transpolitica’ a interessare De Felice quanto gli esiti pratici e culturali in senso lato. Demistificare il ‘basso continuo’ della rigenerazione spirituale degli italiani, che aveva caratterizzato, nell’<epoca sacrale> del processo di secolarizzazione, tutte le sinfonie ideologiche della storia nazionale, dall’età dell’illuminismo a quella repubblicana, paradossalmente, si risolveva proprio nell’accelerazione di tale processo, nella messa a nudo dei valori e degli interessi che gli uomini ‘in carne e ossa’ avevano perseguito, al di là delle interpretazioni che essi e i loro avversari ne avevano dato. Era come se De Felice e Del Noce, dopo lungo e separato cammino, si fossero ricongiunti nella provocatoria storicizzazione di fascismo e antifascismo e nella riscoperta, fatta da ciascuno per suo conto, delle profonde e insospettate ‘affinità elettive’ tra due modelli di vita e di pensiero in apparenza così lontani. Era, per l’appunto, la teoria dei‘fratelli nemici’,implicita nelle riflessioni dell’ultimo Prezzolini: Mussolini e Gobetti erano due membri della stessa famiglia ‘rivoluzionaria’ divisi da una irriducibile strategia e da un diverso rapporto con l’umanitarismo ottocentesco (in virtù del quale, quanti , come me, si riconoscono nell’interpretazione revisionista della storia d’Italia, non hanno alcun dubbio nel ritenere che Mazzini redivivo sarebbe stato un deciso antifascista, pur continuando a rimanere estraneo all’universo liberale). Ciò che lo storico aveva fatto emergere da un’imponente—e spesso disordinata—ricerca d’archivio e consultazione di documenti di ogni tipo, dai diari alle circolari ministeriali, il filosofo aveva ‘dedotto’ nell’empireo di una speculazione tutt’altro che semplice e lineare, la cui prima elaborazione teorica era stata consegnata alla complessa analisi de Il problema dell’ateismo, un testo del 1964 ripubblicato nel 1990, con una significativa Introduzione di Nicola Matteucci—segno non sottovalutabile dell’attenzione prestata dal più illustre teorico politico liberale italiano della seconda metà del Novecento al pensatore cattolico, morto l’anno prima in odore di ideologo di ‘Comunione e Liberazione’.
Si trattava, in entrambi i casi, di una problematica che portava, più o meno consapevolmente, a una rifondazione realistica della <democrazia in Italia> rendendola sempre più simile a quella registrata, nella prassi e nella civic culture degli States, da Alexis de Tocqueville nella prima Democrazia in America, con tutte le sue luci—l’uomo della strada, l’uomo qualunque, divenuto il riferimento privilegiato del discorso politico– e le sue ombre—il ripiegamento nella privacy, l’onesto ‘familismo amorale’, il welfarismo assistenzialista e deresponsabilizzante—che indipendentemente dal giudizio che se ne voglia dare, preparava il terreno antropologico-culturale della Seconda Repubblica, attraverso i vari sdoganamenti, dalla caduta del fattore K al tramonto dell’arco costituzionale—seguito alla conversione liberaldemocratica (e persino resistenziale) della destra nazionale.
Si realizzava, in tal modo, l’auspicio ,espresso dal Guglielmo Ferrero de La Democrazia in Italia. Studi e precisioni già nel lontano 1925, che anche nel nostro paese la lotta politica si ‘laicizzasse’: < i partiti sono molti e diversi, onde il quesito: se qualunque partito e qualsiasi dottrina possa concorrere ugualmente all’esercizio della sovranità in una democrazia. A scioglierlo, occorre aver chiaro nella mente che le istituzioni della democrazia devono essere gli organi della sovranità popolare, non le levatrici di nuovi ordini sociali o di civiltà più perfette. Affinché un partito possa essere un organo della sovranità e un occhio del suffragio universale, deve riconoscersi uguale agli altri, essere un partito, dirò così, di ‘interesse parziale e limitato’, voler rappresentare a condizioni pari una parte e quella sola della volontà nazionale. Una dottrina, che si affermi unica e universale, potrà annunciare una nuova religione o preparare una rivoluzione, non essere un organo delle sovranità popolare in una democrazia moderna>.
E’ non poco significativo che, dinanzi alle sfide internazionali e al riemergere dei fondamentalismi religiosi, lo stile empirico e pragmatico, che sembrava inaugurato dalla fine della contrapposizione frontale tra fascismo e antifascismo, venga oggi rimesso in discussione, sia a destra che a sinistra, per adoperare due categorie invecchiate e problematiche ma non ancora decedute. A sinistra, la componente non riformista—tale per la sua vecchia, insormontabile, avversione alla socialdemocrazia rivissuta nel craxismo—, da sempre in guerra contro il qualunquismo e contro le ‘masse gregarie ed eterodirette’, e, a destra, taluni esponenti di primo piano del polo delle libertà, impegnati nella reconquista cristiana della società civile, sembrano voler rinunciare a quel ‘ritorno al reale’ implicito nella rottura epistemologica defeliciana. Alla politica e agli intellettuali si chiede nuovamente di fornire un ’supplemento d’anima’ alla società civile sicché anche il ‘new deal’ storiografico inaugurato dal biografo del duce, con le sue ricadute politologiche, rischia di venir relegato, malinconicamente, in soffitta.