Se Bondi cala il sipario sugli sprechi delle fondazioni liriche un motivo c’è
09 Maggio 2010
340 milioni di euro di risorse pubbliche, per il 70% destinate a pagare le spese di personale degli oltre 5.600 dipendenti a tempo indeterminato previsti in pianta organica, oltre 100 milioni di euro di deficit accumulati tra il 2004 e il 2008, erosione progressiva del patrimonio netto iniziale – in alcuni casi più che dimezzato – produttività ai minimi termini. Queste le cifre della crisi della lirica italiana, un male che parte da lontano e ha le sue basi nella riforma Veltroni che tra il 1997 e il 1998 le trasformò da enti lirici in fondazioni.
Una privatizzazione fallita, che ha mantenuto il peggio del pubblico e introdotto il peggio del privato, compiuta sulla base di una cultura liberale mal masticata e ancor peggio digerita dall’ex segretario della FGCI. Lo dimostra il fatto che in maniera del tutto ideologica si pretese di aprire alle realtà economiche del territorio i teatri lirici come se questa fosse una panacea universale dotata di un potere taumaturgico intrinseco, senza tener conto delle enormi differenze nelle condizioni di partenza e nel contesto produttivo di riferimento che distinguevano le varie realtà della lirica italiana.
Dopo 10 anni, risulta evidente che solo la Scala di Milano è riuscita ad attrarre un significativo apporto dei privati, che partecipano con 15.412.000 euro al bilancio del teatro, quasi la metà del contributo statale di 33.310.000 euro e circa il 30% in più rispetto agli 11.000.000 di euro che provengono dagli enti locali. L’Opera di Roma, il secondo teatro per importanza dei contributi pubblici grazie ai 26.333.000 euro statali e agli oltre 17.000.000 euro degli enti locali, raccoglie solo 3.320.000 euro dai privati. Un contrasto stridente, che contrappone la Scala con la sua eccellenza e la sua fama internazionale a tutti gli altri teatri, con la sola eccezione dell’Accademia di Santa Cecilia, che a fronte degli oltre 17.000.000 di euro pubblici raccoglie dai privati oltre 6.820.000 euro.
Il Ministro Bondi, consapevole di questi squilibri e dello stato di crisi della lirica che ha portato al commissariamento di cinque dei quattordici teatri lirici nazionali nell’ultimo lustro, ha messo a punto un decreto legge che una volta approvato ha sollevato un vespaio. Da un lato le istanze campanilistiche dei sindaci che mal tolleravano il riconoscimento alla Scala e a Santa Cecilia dello status di teatri di interesse nazionale ha subito portato alla cancellazione di questa distinzione nel passaggio del provvedimento da Palazzo Chigi al Quirinale, prima della sua promulgazione. Dall’altro le resistenze sindacali, forti di una rappresentanza balcanizzata in miriadi di sigle che raccolgono a volte solo pochi orchestrali in grado di bloccare una Prima per avere un aumento di indennità, hanno prodotto uno sciopero immediato, che da Palermo a Trieste, da Torino a Bari ha chiuso i palcoscenici della lirica italiana.
Sì, perché il decreto va a intaccare una giungla contrattuale e retributiva sviluppatasi a dismisura a fronte del mancato rinnovo del contratto nazionale dal 2003, con aspetti distorsivi e privilegi che appaiono ormai insostenibili nel contesto di una difficile congiuntura internazionale, soprattutto a fronte di una produttività talmente bassa da apparire umiliante nel confronto europeo. Solo la Scala riesce a fare oltre 300 alzate di sipario in un anno, tutti gli altri teatri sono ben al di sotto delle 200. Le produzioni liriche, poi, sono ai minimi termini, se paragonate all’Opera di Parigi, al Liceu di Barcellona, alla Staatsoper di Vienna o alla Royal Opera House di Londra. Certo, queste realtà possono godere di finanziamenti statali ben maggiori dei teatri lirici italiani. Tuttavia nessun paese in Europa sostiene 14 fondazioni liriche come avviene in Italia, ma concentra le risorse nelle poche e spesso uniche eccellenze di cui gode. Forse questi problemi meritano ben altra risposta rispetto agli scioperi, alle barricate e ai funerali della lirica inscenati ovunque in Italia.
Servirebbe, di fronte alla proposta del Governo, un confronto costruttivo, capace di portare migliorie a un provvedimento che il Ministro ha presentato come un punto di partenza, non un testo blindato. Se questo non avverrà, ben presto la lirica italiana diventerà l’ennesimo stipendificio, mortificante per le tante eccellenze artistiche e tecniche che ancora vi lavorano con passione, talento, orgoglio e dignità.