Se Di Pietro fosse davvero populista non sarebbe meglio per tutti?
03 Luglio 2009
Marcello Ortera, sul ‘Corriere della Sera’ del 22 giugno 2009 ha indirizzato a Sergio Romano una breve lettera che merita di essere trascritta per intero: “L’avanzata di Di Pietro mi ricorda il Poujadismo francese degli anni Cinquanta, nato come ribellione al potere e all’intellettualismo. Durò, se ben ricordo, una o due legislature acquisendo decine di deputati al Parlamento e poi, come una meteora, scomparve. Di Pietro oggi raccoglie, semplificando, coloro che «odiano» Berlusconi e non ha una linea politica matura. Ora che ha avuto successo, necessariamente dovrà «diluire» la sua ribellione, dovrà essere più «intellettuale» e dovrà fare anche della politica. Tutto ciò lo allontanerà da chi lo ha votato, per poi scomparire. Lei cosa ne pensa?”. Da uno storico che per tanti anni è stato ambasciatore della Repubblica nelle più importanti sedi diplomatiche del pianeta e, quindi, si presume essere “del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore”, ci si poteva aspettare una risposta più complessa e problematica. E invece come già altre volte – v. il suo elogio sul ‘Corriere della sera’ del mediocre libretto di Luciano Canfora su “La natura del potere” (ed. Laterza) – Romano ha riconfermato il suo essere in sintonia con l’establishment politico-culturale del paese che, sulle colonne del quotidiano di Via Solferino, può anche criticare Antonio Di Pietro ma con juicio.
Lo studioso, persona amabile e uomo di grande cultura non alieno da prese di posizione anticonformista—talora condividibili, talora no: si ricordino le sue considerazioni sulla guerra civile spagnola o sul conflitto israelo-palestinese – è libero, come chiunque altro, di farci conoscere tutti i suoi “giudizi di valore” ma sui “giudizi di fatto” dovrebbe essere più cauto e problematico e, soprattutto, più rispettoso della verità storica. Nella risposta a Ortera, Poujade e Di Pietro due irresistibili ascese, il populista Pierre Poujade viene fatto a pezzi, laddove Di Pietro, nonostante “i toni coloriti e provocatori del caudillo populista” viene presentato in una luce simpatica e, tutto sommato, “ampiamente positiva”, per citare la formula delle Commissioni esaminatrici dei concorsi a cattedra. Scrivendo del cartolaio di Saint Céré che, fra il 1953 e il 1956, con la sua Unione di Difesa Commercianti e Artigiani (UDCA) mise a soqquadro la IV Repubblica, con due milioni e mezzo di voti e 52 deputati eletti all’Assemblea Nazionale, Romano ne mette in luce tre aspetti: la base sociale premoderna, sorda alle esigenze della Francia che, dopo il conflitto mondiale, “doveva completare la ricostruzione, modernizzare le sue strutture economiche, adottare una legislazione fiscale corrispondente alle esigenze di uno stato moderno”; l’”arruffato programma politico contro tutti coloro che, secondo il fondatore, dissanguavano il ‘povero cittadino’: capitalisti, ebrei, finanzieri internazionali, alti burocrati intellettuali”; il legame con la “destra fascisteggiante”, da cui proveniva Poujade, che spiegherebbe l’adesione all’UDCA di Jean-Marie Le Pen, la difesa della “Francia profonda contro la Francia cosmopolita, intellettuale e decadente” nonché il sostegno dato alla “causa dei coloni francesi”. Si tratta di aspetti reali sennonché mai come in questo caso vengono in mente le parole di Amleto: "ci sono più cose in terra e in cielo Orazio di quante ne sogni la tua filosofia". Il riferimento a Le Pen, innanzitutto, col sottinteso dell’”aria di famiglia”.
Dalle rapidissime considerazioni di Romano riesce difficile capire come mai un impresentabile demagogo come “Pierre Poujade abbia appoggiato, alle elezioni presidenziali, Charles De Gaulle, Georges Pompidou, Valéry Giscard d’Estaing, Jacques Chirac, François Mitterrand per due volte (sic!) e, persino, nel 2002, l’altro socialista Jean-Pierre Chevènement. (“La disciplina di voto dei poujadisti permise più volte di essere decisiva nelle elezioni del presidente della repubblica”, si legge in un suo profilo biografico). E ancor meno si spiega la sua nomina a membro del Consiglio economico e sociale dal 1984 al 1999 voluta da François Mitterrand nonché ad altre cariche pubbliche. In realtà, per avere una qualche idea non impressionistica del poujadismo, sarebbe stato necessario fare i conti col corposo saggio di Stanley Hoffmann, Le Mouvement Poujade (Ed. Colin, Paris 1957. Prefazione di Jean Meynaud), che rimane ancora oggi uno degli studi più acuti e profondi sul tema. “Ciò che costituisce l’originalità e la gravità del poujadismo – vi si legge – è che la rivolta è nata non negli ambienti in cui la fede nel regime è sempre stata tiepida, ma nella base stessa della Repubblica giacobina: da lì vengono l’egualitarismo del Movimento, la sua estraneità alle elite non solo politiche ma sociali, i suoi riferimenti naturali alla Rivoluzione, il suo vocabolario insieme più aggressivo rispetto a quello dei movimenti antiparlamentari nati negli ambienti benpensanti e più spontaneo, meno freddamente abietto di quello delle diverse leghe fasciste d’origine più borghese. I soprassalti antiparlamentari dei notabili sono al servizio dell’autorità, quelli dei ‘petits’ mostrano volentieri il pugno. Le prime truppe del poujadismo, non una parte degli elettori ma la massa degli aderenti, sono uomini e donne per i quali il regime politico francese è un’astrazione, che non lo incontrano se non nei giorni delle elezioni di cui non possono condizionare l’esito e talora non lo incontrano affatto: né militanti di partito né elettori, astensionisti o non iscritti. Essi sono troppo ‘piccoli’ per interessare i grandi gruppi d’interesse; troppo legati alla società liberale e individualista per sottomettersi alla disciplina di un partito di massa come il partito comunista”. E ancora “I figli dei giacobini sputano sulla politica non perché, come pensano i notabili, la considerino cosa impura ma perché, per così dire, ha scelto una strada sbagliata. Come tutti gli antipolitici, difendono l’ordine stabilito ma con uno stile più esasperato, più negativo degli altri, giacché nasce dalla delusione di quanti erano stati i beneficiari del sistema”.
Lungi dall’essere l’equivalente delle nostre masse sanfediste, espressione della ‘Francia barbara’ – per parafrasare l’Italia barbara di Curzio Malaparte –, Poujade rappresenta la piccola borghesia giacobina che, dopo aver dato l’assalto alla Bastiglia, viene messa in congedo dai travolgenti processi di modernizzazione della IV e della V Repubblica. Ma non pertanto il movimento si estingue del tutto, giacché riconvertito in un informale ‘gruppo di pressione’ tenuto insieme dal fondatore, riesce alla lunga a laicizzarsi e a condizionare, nello spirito di una democrazia secolarizzata e quindi disposta a sentire e a tener conto di tutti i bisogni e gli interessi della società civile, governi ed elezioni presidenziali. Ne risulta che l’accostamento – al quale Romano non ha saputo resistere – all’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini è per lo meno dubbio. L’UQ, infatti, si fa carico della protesta e delle paure degli “esclusi da sempre” , non ha alcun immaginario storico-politico da proporre ai suoi seguaci e non di rado mostra un certo fastidio per il Risorgimento e per l’idea stessa di Stato nazionale. (Nella “Folla” Giannini scriveva che gli interessava assai poco il colore della bandiera sventolante su Piazza San Marco purché l’accesso alla città lagunare fosse sempre libero e gli sposini potessero continuare a farsi fotografare davanti alla Cattedrale con i piccioni in mano; inoltre, fu uno dei primi leader italiani ad aderire e a mandare una rappresentanza al Movimento europeo.)
Ma lasciamo Giannini e Poujade riposare nelle loro tombe e veniamo a Di Pietro, al quale Romano dedica, peraltro, solo la sesta parte della sua risposta. Premetto di essere del tutto d’accordo con la sua radicale distinzione tra UDCA e l’Italia dei Valori e di trovare per lo meno azzardata la sostanziale assimilazione tra i due fenomeni implicita nella lettera di Ortera. Detto questo, però, contrapporre al diavolo Poujade l’angelo Di Pietro che “nelle sue incarnazioni ministeriali ha dimostrato di essere sensibile alle esigenze della modernizzazione e non è né xenofobo né tanto meno razzista” significa eludere il vero problema, posto da Ortera e consistente nel comune, inequivocabile, ‘stile populista’. E, soprattutto, significa stendere un velo sulla preoccupante patologia democratica rivelata da entrambe le “irresistibili ascese” e non solo da quella (poi rientrata) del piccolo bottegaio di Saint Céré.
Rimanere sul piano della ‘comunicazione politica’ e dei programmi elettorali non porta molto lontano. Si può sfasciare un sistema in nome dei suoi valori traditi (Poujade), si possono difendere la libertà e la legalità facendo sentire alla gente il tintinnio delle manette (Di Pietro)! E’ solo quando si prendono in considerazione la genesi, la natura, la funzione di un movimento politico che il discorso si fa serio e concreto. Se si fosse messo in questa ottica, lo storico avrebbe dovuto riconoscere che dei due ‘dilettanti’ della politica, il vero populista era Poujade ma che non per questo Di Pietro era, è, meno unfitted a una democrazia liberale “a norma”, fondata su comuni valori e sul riconoscimento di legittimità agli avversari politici. Ma procediamo con ordine.
Una caratteristica saliente del ‘populismo’ è la rivolta dal basso, l’insofferenza nei confronti delle classe politica e della classe dirigente : ebbene può considerarsi ‘populista’ doc un leader che proviene dai ranghi di uno dei settori più influenti della ‘classe dirigente’, la magistratura, e ne vuol essere la proiezione politico-parlamentare? E per quanto riguarda la ‘natura’ del populismo, non è forse scontato che quello classico si colloca “oltre la destra e la sinistra”- a suo avviso due diverse facce della stessa medaglia-, mentre l’IdV dopo le prime incerte collocazioni sull’asse elettorale, ha tradotto la sua scelta giustizialista in “protesta di sinistra”, presentandosi come la supplente di uno schieramento a rischio d’estinzione a causa dell’allentamento della passione politica e, in certi casi, della connivenza col nemico giurato, Silvio Berlusconi?
Prendiamo la mitologia politica più diffusa (e pericolosa) in molti ambienti dell’Italia d’oggi, quella che Pier Luigi Battista, sul ‘Corriere della Sera’ del 22 giugno 2009, ha chiamato “La favola dei perbene contro i permale”. E’ dal 1994, ha fatto rilevare l’editorialista, “che i paladini della realtà raccontano con stucchevole ripetitività questa fiaba autoconsolatoria: l’«altro» vince perché è un mago, un illusionista, un saltimbanco della stregoneria, un imbonitore che attraverso la tv ha avvilito i cittadini, trasformandoli in consumatori succubi della politica ridotta a poltiglia pubblicitaria. Hanno costruito uno specialissimo schema bipolare. Da una parte l’Italia buona, razionale, civile, studiosa, rispettosa delle leggi, sanamente ancorata al principio di realtà, lungimirante, virtuosa: l’Italia migliore, quella «loro» naturalmente. Dall’altra, dalla parte del «mago» crudele, l’Italia stracciona, l’Italia alle vongole, preda degli «istinti», prigioniera delle «paure», schiava delle «pulsioni egoistiche», l’Italia gretta, fobica, piccina, credulona, sgangherata. L’Italia razionale contro l’Italia irrazionale, l’Italia perbene contro l’Italia permale. Il bipolarismo politico, soppiantato da un irriducibile dualismo antropologico”. Se l’analisi coglie nel segno e l’antintellettualismo, come nota giustamente Ortera, è un momento qualificante del populismo, sarebbe davvero anomalo un populista che si desse l’ideologia delle aristocrazie colte, riprendendo, in Italia, i classici temi dell’azionismo e della ‘Rivoluzione Liberale’—l’elite responsabile destinata a bonificare l’Italia della controriforma, provinciale, antimoderna etc.
Quali sono, del resto, i settori della società civile e politica che si riconoscono in Di Pietro, nei suoi alleati e nelle sue battaglie? L’elenco è impressionante giacché si va dai ‘poteri forti’ – banche, imprese etc. – che sostengono il gruppo Espresso-Repubblica, ‘MicroMega’ e i suoi satelliti della ‘sinistra liberale’ (sic!), alle redazioni culturali dei maggiori organi di informazione (‘redazioni culturali’, beninteso, perché quelle politiche ed economiche tengono un linguaggio diverso), da ampi settori della magistratura e della scuola e del mondo accademico a quasi tutto il settore dello spettacolo – radio, TV, cinema etc. –, da una parte non trascurabile della cultura cattolica alle burocrazie del pubblico impiego, per non parlare dei sindacati. Ed è forse superfluo ricordare che ‘intellettuali militanti’ come Gianni Vattimo, Nicola Tranfaglia, Claudio Magris, Andrea Camilleri si sono candidati nelle file dell’Idv o hanno dichiarato di votarla. Di questo trend si possono dare le valutazioni più diverse ma una cosa parrebbe incontrovertibile: la natura del dipietrismo non è populista (Romano) ma l’ex questore-magistrato si serve dell’appeal populista (Ortera) per darsi una collocazione sicura e una funzione decisiva all’interno dell’arcipelago della sinistra italiana – certamente, almeno a parole, “né xenofobo né tanto meno razzista”.
A ben riflettere, tuttavia, un politico che indossa la maschera populista, a differenza di quanto si potrebbe credere leggendo l’articolo di Romano (per parte sua, assai poco tenero col partito delle toghe) , è molto più pericoloso per la democrazia liberale di un populista aperto e dichiarato come Pierre Poujade o William Jennings Bryan. Il primo, infatti, gioca scaltramente su due registri: si serve della rabbia dei ‘petits’ per farne la risorsa elettorale di una parte della classe dirigente (incapace di prevalere per via elettorale); il secondo agisce in proprio, per tutelare efficacemente gli interessi e gli spazi privati della “gente meccanica e di piccolo affare” e – a meno che non si riconcili col sistema, come fece Poujade – è destinato a uscir presto di scena. “Di Pietro resterà ancora, è la conclusione di Romano, indipendentemente dalle fortune del suo partito, sul palcoscenico della politica nazionale”. Sarebbe stato interessante spiegare perché.