Se facebook diventa un’arma micidiale
21 Ottobre 2008
Che Wayne Forrester, il londinese di 34 anni che ha assassinato brutalmente la moglie da cui si era appena separato, avesse qualche problema, è fuor di dubbio: prima del delitto aveva più volte minacciato la donna di morte, e al momento di ucciderla aveva la mente offuscata da alcool e droga, assunti massicciamente prima di tornare nella casa da cui era stato cacciato e forzare la porta. Sembrerebbe l’ennesima storia di violenza domestica, triste come purtroppo tante altre; se non fosse per il movente – cui, nel riferire la vicenda, i media hanno dato il peso maggiore.
La motivazione fornita da Forrester per il suo gesto è stata il fatto che la ex moglie, appena separata, avesse già segnalato su Facebook, il sito di social networking cui era associata, il suo nuovo status da single: forse per stringere nuove relazioni, forse semplicemente per gridare al mondo intero (almeno quello digitale) quanto lontana si sentisse ormai da quel legame. Il marito lo ha scoperto navigando in Internet (come chiunque altro avrebbe potuto fare), e ha scelto la prima interpretazione: un’umiliazione insopportabile ai suoi occhi, che a suo dire lo ha spinto a darle quel che “meritava”.
Il particolare non può certo fungere da spiegazione, né tanto meno da giustificazione, per il crimine – come ha concluso anche la giuria che ha riconosciuto Forrester colpevole – ma se resta privo di interesse in sede giudiziaria, merita invece qualche riflessione in più dal punto di vista socioculturale. A scatenare l’ira del marito omicida è stata la possibilità che chiunque sul Web potesse scoprire che la signora Forrester era di nuovo disponibile, come aveva fatto lui: le informazioni presenti sui social network, sono infatti accessibili a tutti attraverso i motori di ricerca, talvolta a dispetto dell’utente stesso. Solo ieri, in una riunione a Strasburgo, i ventotto garanti della privacy europei, allarmati dai sempre più frequenti casi di violazione della privacy e persino di furto d’identità, hanno stabilito di inibire una simile possibilità per tutelare i dati personali degli utenti: a partire dal prossimo sabato il profilo degli iscritti non sarà più visibile dall’esterno del network, a meno di un consenso esplicito.
Certo la leggerezza più o meno irresponsabile con la quale i membri dei social network (specialmente i minori) diffondono le informazioni sul proprio conto, magari ignorando che il network li conserva a oltranza, o che chiunque navighi su Internet li può reperire attraverso una ricerca su Google, non può valere a giustificare nessun tipo di utilizzo criminale di questi stessi dati. Ma le contromisure delle authority, per quanto severe, da sole non possono bastare ad arginare i pericoli in Rete: che non vengono dalla tecnologia, ma da un elemento assai meno innovativo del Web 2.0: la reputazione. Quella stessa reputazione che può fare di un marito ripudiato lo zimbello di una piccola comunità, e – a prescindere da quanto i suoi sentimenti siano veramente feriti dalla fine della relazione – muoverlo al delitto d’onore pur di salvaguardare il suo buon (si fa per dire) nome.
Ancora oggi, gli utenti di Internet non sono sufficientemente coscienti che le reti virtuali hanno effetti reali; non sembrano consapevoli che le conseguenze, positive o negative, che la diffusione online di informazioni sul proprio conto sortisce sono tutt’altro che immateriali; non si rendono conto che parlare di sé, anche su Internet, significa crearsi una fama altrettanto concreta, e dura a morire, di quella che ci si fa in ogni contesto sociale. E’ anzitutto a questo concetto che i navigatori andrebbero educati, nel loro stesso interesse.
La tecnologia non c’entra: anche nel caso Forrester l’effetto sortito è stato semplicemente amplificato dal Web; ma poteva essere (ed in molti casi analoghi è stato) ugualmente prodotto da una rete di relazioni reale, anziché virtuale (basta pensare a cosa accadeva, più di cent’anni fa, al protagonista de La sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj). Che viaggi sulle reti digitali o sulle bocche dei passanti, il potere della reputazione è sempre lo stesso. Così come lo stesso è il raziocinio che dovrebbe presiedere alla sua giusta valutazione e considerazione: impedendo che si possa spacciarla per la condivisibile ragione di quello che è, e resta, un atto bestiale; che si possa elevare a comprensibile prodotto dei tempi moderni la brutale, e purtroppo antichissima, pratica della violenza, specialmente di quella domestica.