Se gli Stati Uniti mirano all’Asia allora l’Europa dovrà rinvestire in difesa

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Se gli Stati Uniti mirano all’Asia allora l’Europa dovrà rinvestire in difesa

21 Gennaio 2012

In Italia qualcuno fortunatamente inizia a parlarne. Gli Stati Uniti diminuiranno la spesa militare – quasi 1 trilione di dollari in tagli alla difesa sul prossimo decennio – e lentamente disinvestiranno dall’Europa. Era prevedibile che ciò un giorno tutto ciò sarebbe avvenuto, ma tutto sommato quant’è facile dirlo ora. D’altronde vinta la multi-decennale confrontation contro l’espansionismo sovietico in Europa, implementato l’effettivo roll back nei confronti di Mosca con la guerra dei Balcani degli anni ’90, integrati i paesi dell’Est Europa nella NATO, a cui si aggiunga l’emergere delle ambizioni di governo europeo connesse al processo d’integrazione europea (oggi non in forma smagliante), il ruolo strategico che Washington doveva giocare sul teatro europeo viene meno.

L’America si ritira dall’Europa per investire dove batte il cuore del mondo, dove si genera ricchezza e da dove provengono i maggiori rischi all’egemonia statunitense: l’Asia. Il movimento verso l’Asia non è proprio cosa nuova. Sin dal proprio insediamento, l’amministrazione Obama ha lentamente disinvestito energie e risorse dal Vecchio Continente, riservando le sue ‘mitiche’ apparizioni europee  ai summit G8 o G20. Si ricorderà come, rompendo con la tradizione del primo visita del Segretario di Stato in Europa, la prima di Hillary R. Clinton sia avvenuto in Asia. Suo marito, Bill Clinton, aprii al Vietnam, così come il presidente G. W. Bush diede vita alla partnership tra gli USA e l’India.

Sul piano strategico è palese il disimpegno Usa dall’Europa e dal Medio Oriente – manifestatosi nel ritiro delle truppe USA dall’Iraq e da quello imminente dall’Afghanistan assieme al “leading from behind” sulla Libia e all’assenza di un’articolata strategia statunitense negli sconvolgimenti geopolitici derivanti delle rivolte arabe -, un processo peraltro confermato dal recente Defense Strategic Guidance divulgato lo scorso 5 Gennaio scorso dal Pentagono, oggi guidato dall’ex-direttore della CIA nell’amministrazione Obama, Leon Panetta.

La nuova strategia mette nero su bianco quello che era emerso di fatto con il processo di impegno nell’area Asia-Pacifico che tanto risalto mediatico aveva ricevuto lo scorso Novembre con il summit del Asia-Pacific Economic Cooperation, APEC ad Honolulu (Hawaii, Stati Uniti) quando l’amministrazione Obama di fatto spiegò al mondo come gli USA da quel momento in poi avrebbero sviluppato un sistema di cooperazione regionale nella regione, tanto in difesa quanto in promozione dei propri interessi nazionali.

Ogni anno gli Stati Uniti commerciano con la regione per un volume di commercio che vale 1 trilione di dollari, con un impatto occupazionale sugli Stati Uniti di 11 milioni di posti di lavoro. Poi c’è il nodo Cina. La strategia di Washington nei confronti della crescente potenza asiatica nella regione, si articola da un lato su cooperazione con la Cina su tutti quei capitoli – economia e commercio bilaterale – sui quali ci può essere possibilità d’intesa tra i due paesi, e dall’altro si sostanzia invece sulla costruzione di una rete di contenimento triangolare costruita dagli Stati Uniti attorno a India, Corea del Sud/Giappone, Australia.

Indicativo a questo riguardo l’annuncio, avvenuto lo scorso Novembre, del dislocamento di 2.500 marines statunitensi in Australia, frutto di un accordo con il governo di Camberra presieduto dal premier laburista, Julia Gillard, che si aggiungono a quei 50.000 militari statunitensi dislocati tra il territorio sud-coreano e giapponese. Il primo risultato di tale scelta strategica americana è che l’Europa, che durante tutta la seconda metà del secolo scorso, bon gré mal gré, ha goduto dell’ombrello strategico statunitense in materia di difesa, dovrà progressivamente riprendere in mano il proprio destino anche in materia di spesa militare.

Un processo che complica ulteriormente il quadro politico europeo, tenuto conto della crisi del modello di spesa pubblica continentale europea, la crisi del debito sovrano dell’Europa e problemi di governance monetaria dell’UE unito al deficit di democrazia che aleggia sugli organismi comunitari con l’impatto nefasto che ciò ha sugli Stati membri (e l’Italia ne sa qualcosa).

Ora, se “non tutto il mal vien per nuocere” (un po’ di buon senso popolare misto a ottimismo non guasta di questi tempi), il disimpegno statunitense dall’Europa può anche rappresentare  una buona occasione per ripensare alla radice il ruolo dell’autorità pubblica per eccellenza – lo Stato –, riconducendone la funzione prima di tutto alla difesa verso l’interno e verso l’esterno di una comunità e di un territorio, mettendo fine all’idea di Stato ‘datore di lavoro’ che tanti danni ha causato all’Italia.

L’impellenza di prendere in mano pienamente la propria difesa, a più di 67 anni dalla fine del sogni di gloria nazional-fascisti che per decenni ha impedito alla comunità nazionale italiana di parlare di “patria”, consentirebbe di ritrovare un grande collante nazionale e in prospettiva di mettere mano a tutte quelle riforme economiche e politiche che da decenni ormai impediscono all’Italia di avere una crescita demografica ed economica sostenuta.

Tutto ciò, ovviamente, in attesa che l’Europa si doti di un governo europeo legittimato da un processo elettorale realmente democratico e in grado di raccogliere le sfide che questo secolo pone innanzi all’Europa e che si condensano in una breve domanda: rinascita europea o declino inesorabile? Time will tell, il tempo ci dirà.