“Se Haiti è un paese in agonia è colpa del capitalismo non del terremoto”
31 Gennaio 2010
La letteratura ai tempi del disastro haitiano. No, sarebbe cinico, ridondante, abbietto. Epperò il raccogliere il giudizio dello scrittore domenicano Junot Díaz non può prescindere dalla particolare sensibilità che un uomo di lettere dispiega anche in frangenti tragici come questi, anzi soprattutto in questi momenti in cui la realtà diventa il banco di prova autentico della verità che deve sul serio permeare pure la letteratura. E sennò la letteratura è nulla, inservibile. Peggiore del peggior cinismo. Viene da evocare Flannery O’Connor, tanto per capirci…
Junot Díaz i Caraibi li ha nel sangue, sul viso, nelle ossa. Nato il 31 dicembre 1968 a Santo Domingo, è oggi cittadino degli Stati Uniti di America, di quegli odiati Stati Uniti capitalisti e arraffoni e rapaci che però sono il bene rifugio di tutti i diseredati, la Camelot degli ultimi, la casa comune che accoglie chi, non sapendo più dove sbattere la testa, varca le Colonne d’Ercole della Statua della Libertà e prende a sputare persino nel piatto in cui si è messo, cheap fin che si vuole ma caldo e disponibile, a mangiare.
Nel 2008 Díaz ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa con "La breve favolosa vita di Oscar Wao", (trad. it di Silvia Pareschi, Mondadori, Milano 2008) e il suo astro, ad appena quarant’anni e poco più, è in piena ascesa. Docente di Scrittura creativa al Massachusetts Institute of Technology di Boston, ha firmato diversi racconti, tra cui Ysrael (su Story, 1995), How to Date a Browngirl, Blackgirl, Whitegirl, or Halfie (su The New Yorker, 1995), The Sun, The Moon, The Stars (su The New Yorker, 1988), Flaca (su Story, 1999), Homecoming, with Turtle (su The New Yorker, 2004), Wildwood (su The New Yorker, 2007) e Alma (su The New Yorker, 2007).
«Haiti è stata devastata», dice laconico lo scrittore. «Il livello della sofferenza che vive oggi il Paese è inimmaginabile. Ma l’aspetto peggiore è che Haiti è un Paese in agonia da così lungo tempo da far sì che il terremoto altro non sia se non la sua catastrofe più recente». E allora, gli domando, cosa insegna una tragedia di questa portata a un uomo della sua cultura e delle sue origini? «Insegna che la nostra è una civiltà che si accontenta benone di vedere popolazioni intere che vivono quotidianamente in condizioni miserrime come quelle in cui versa la gente haitiana, condizioni di un immiserimento tale da far sì che un terremoto, un evento cioè certamente disastroso ma a cui si può reagire bene diversamente, possa ribaltare se su stesso un Paese intero».
Díaz è ben noto per l’impegno a favore degl’immigrati e dei sofferenti delle comunità meno benestanti che abbisognano di molto se non persino di tutto. Ed è leftist. Ci si mette dunque poco a capire dove le sue allusioni vadano a parare. «Viviamo in un mondo che ha trascorso gli ultimi due secoli ignorando completamente Haiti e la sua gente, e che questo ha fatto attraverso la promozione di un sistema, il capitalismo, che rende situazioni come quella di Haiti non solo possibili ma addirittura inevitabili. Se davvero ci preme oggi la situazione delle Haiti del mondo, ci si deve dedicare subito anima e corpo all’abolizione delle iniquità che il capitalismo crea… Ma nessuna sofferenza ci convincerà mai a fare un solo passo indietro. Non ancora, almeno».
Il capitalismo come origine di ogni male. Come quando si è imputata la crisi finanziaria mondiale al laissez-faire, laddove invece è stata colpa dell’assenza di responsabilità personale che certi attori di quel proscenio pensano, epperò proprio contro la mentalità capitalistica, essere il corollario della libertà individuale, assenza di responsabilità e di regole giuridiche che invece ogni buon anarco-capitalista o libertarian pretende con certezza. In Díaz l’avversione agli USA è però pure effetto di un endemico spirito campanilistico iberoamericano che giudica i norteamericanos sempre come fumo negli occhi, tant’è che quello spirito in America Latina è diffuso ovunque, a Destra, al Centro e non solo a Sinistra.
Rincalzo. Giudica insufficiente lo sforzo ora profuso da Washington in soccorso ad Haiti? «Hei, siamo contenti per quelli che sono contenti, ma gli USA “leader del mondo libero” hanno molto da rispondere a proposito della fatiscenza di Haiti», sbotta Díaz. Apprezzo moltissimo come se non altro lo scrittore abbia elegantemente evitato il tormentone del tributo inutile e vuoto alla retorica bolsa che descrive la Casa Bianca del primo presidente nero della storia statunitense buono a prescindere giacché sta(rebbe) dalla parte dei poveri e dei coloured… Epperò mi viene anche in mente che se è vero che i ricchi hanno spesso il pelo sullo stomaco, pure sono soli i ricchi a poter aiutare i poveri. Se vi fossero solo poveri, non vi sarebbe scampo. Una cosa più o meno di questo tenore la disse un dì Madre Teresa di Calcutta. Eppoi non ricordo un Paese a economia comandata, irreggimentata, soffocata che si sia mai distinto per generosità internazionale, soprattutto perché non ne ha né ne avrebbe le disponibilità economiche.
Tento allora la carta letteraria. Del resto in questi giorni si parla e straparla del woodoo haitiano, della “vendetta degli dèi”, del fio di certe colpe morali, di spiriti evocati da apprendisti stregoni che poi ne hanno perso il controllo. Tutte fandonie come dice l’Ebenezer Scrooge di Charles Dickens davanti ai fantasmi, oppure no? «Perché», mi replica diretto Díaz, «dovrei specular su certe voci quando là la gente muore quotidianamente? Non abbiamo affatto bisogno di generalizzazioni disumanizzanti circa le persone, ma solo di più assistenza concreta». Mi mordo la lingua. Díaz non è disposto a parlare a nuora affinché suocera intenda, oppure gli pare troppo sopra le righe far del “culturame” in faccia alla morte. Lo rispetto. Eppure resto arciconvinto del fatto che, se non è capace di esorcizzare davvero, allora la letteratura non serve, anzi non servono né lei né la sofferenza reale della gente. Rientro nei ranghi, o così do l’impressione e vario il registro ma solo di un poco.
A un uomo della sua sensibilità ed estrazione la tragedia di Haiti dice che Dio non esiste? O forse che è solo “distratto”? Oppure, tutt’al contrario, una vicenda così interroga le persone nel profondo e proprio sul senso sempre trascendente che le cose hanno? «Non credo che ciò che è accaduto ad Haiti provi o neghi l’esistenza di Dio. Certamente però dà prove, incontrovertibili, del fatto che la malvagità e l’indifferenza umane praticate attraverso il nostro sistema economico siano ben vive. Il terremoto ha devastato Haiti, okkèi, ma sono stati decenni di rapine e di abusi economici, voluti e implementati da una oscena congerie di élite politiche interne al Paese, il vero terremoto originario. La terra di Haiti che trema sotto i piedi della gente ora è solo il sipario che cala sopra un lungo secolo di sofferenze ben architettate».
Eccola qua l’opinione di Junot Diaz, coraggiosa com’è e incensurata come dev’essere, nel senso che la riportiamo tutta intera anche se pensiamo che la verità vera sia ben altrimenti. Quella per esempio ben scritta qualche giorno fa da Anna Bono per Le news di SVIPOP, ovvero quell’organizzazione “Sviluppo e Popolazione” di Riccardo Cascioli inamovibile nel credere che l’uomo sia sempre la soluzione, ma il problema. «Un succedersi di regimi corrotti e violenti hanno impedito lo sviluppo di Haiti», ha detto la Bono. «Il peggio si è avuto con Papa Doc e Baby Doc: così venivano chiamati il dottor François Duvalier, presidente dal 1957 al 1971, e il figlio Jean-Claude, succedutogli alla sua morte e rimasto in carica fino al 1986. Ma anche dopo, come dimostrano i dati economici e sociali più recenti, le cose non sono andate meglio. Attribuire, come molti stanno facendo in questi giorni, a fattori remoti – colonizzazione, schiavismo – e di ordine naturale – uragani, terremoti – la povertà degli Haitiani e quindi l’entità immensa dei danni prodotti dal sisma è un errore che apre la strada a nuovi drammi se ne conseguirà che, dopo un formidabile impegno di ricostruzione, il paese verrà riconsegnato a una leadership incapace e irresponsabile a cui nessuno chiederà conto del modo in cui governa. La prossima volta si tratterà di un ciclone tropicale di particolare violenza o di un’epidemia. Il risultato sarà lo stesso». Do you remember Katrina, l’uragano liberal venuto, così certuni vollero, a svellere il capitalismo?..
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