Se il 17 marzo lo pagano le imprese è meglio festeggiare lavorando

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Se il 17 marzo lo pagano le imprese è meglio festeggiare lavorando

13 Febbraio 2011

Certo non è un motivo di orgoglio la polemica che sta crescendo, giorno dopo giorno, sulla festa del 17 marzo per la ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Non inorgoglisce ma è una polemica che merita comunque una riflessione. Se non altro perché, se da una parte viene facilmente percepita nei termini – far chiudere o tenere aperti, quel giorno, uffici e fabbriche –, d’altra parte sembra che non altrettanto agevolmente vengano intuite le ragioni di chi vorrebbe che quel giorno fosse festeggiato sul lavoro. Un problema c’è dunque. E’ evidente.

Di ciò pare che pure il governo si sia reso conto se è vero che, mercoledì, il Consiglio dei ministri non ha deliberato alcunché in merito, e la decisione è stata rinviata alla prossima riunione. "Stiamo cercando una soluzione che non pesi sulla crescita economica e allo stesso tempo consenta l’adeguata celebrazione di un evento cui diamo significato ogni 50 anni", ha affermato il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, a Labitalia. Un problema c’è, dunque. Un problema che non è quello di stabilire se sia giusto o meno celebrare il compleanno dell’Italia (tutti si sono dichiarati apertamente favorevoli, ci mancherebbe!); ma è relativo alla non unanime condivisione sul trattamento da riservare a questo giorno di festa. Non è una questione di principi, ma di realistica quotidianità.

Eppure… Eppure, anche questo episodio più lontano dalla solita polemica all’italiana, sta avviandosi a sfociare in qualcosa di peggio: in un perverso gioco di ipocrisie. Si parla, si scrive, si discute sulla "giustezza" o meno di dare adeguati festeggiamenti alla ricorrenza. Si contestano le imprese, si esaltano i sindacati. Addirittura si rievoca, con spavento, lo spettro dell’anima secessionista della Lega. Ma tutti, come anime smarrite in un perverso gioco di ipocrisie, schivano con certosina cura il vero nocciolo della questione: chi deve sopportare i "costi" della festa?

La polemica, ufficialmente, prende vita dalle dichiarazioni del presidente di Confindustria. Facendo eco al presidente degli industriali di Bologna, Emma Marcegaglia ha criticato lo stop delle attività (lo stop delle attività, non la festività!), ritenendola causa di aumento del costo del lavoro e perdita di produzione alle aziende. Ciò, in considerazione delle contingenti esigenze di "un’economia che sta facendo ogni possibile sforzo per recuperare competitività". Con il rischio, peraltro, di "una nuova festività, per di più collocata in una giornata, il giovedì, che si presta ad essere utilizzata per un ‘ponte lungo’ sino al fine settimana".

L’appello della Marcegaglia è stato colto da Giuliano Amato, presidente del Comitato dei garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. "Una mattinata di scuola dedicata a vedere e a discutere un film sul Risorgimento", ha sostenuto Amato, "vale più di una mattinata di festa passata a dormire e mettersi poi al computer per chattare su Facebook". A sottolineare che, per ricordare e festeggiare il 17 marzo, "la vacanza non è il modo migliore per farlo".

Il sindacato della Uil, in sintonia, ha suggerito di anticipare la festa del 2 giugno al 17 marzo per evitare "così di perdere 5-6 miliardi di euro con cui si potrebbero fare molte altre cose utili per i cittadini". Sul fronte degli oppositori si è subito disposta la Cgil. "Con tutte le ore di cassa integrazione fatte in questi due anni", ha detto il segretario confederale, Vincenzo Scudiere, "poter festeggiare l’Unità d’Italia non è assolutamente un dramma".

Anche il Corriere della Sera non ha tardato a ricusare le critiche degli industriali. Con un fendente articolo di Giovanni Belardelli (Se nel giorno dei 150 anni le imprese trascurano l’Unità) ha invitato la Marcegaglia a unirsi "senza mugugni e riserve" alla festa e alle celebrazioni del 17 marzo, sul presupposto che Confindustria debba sentirsi non soltanto il "sindacato" degli industriali (!), "ma anche come un pezzo rilevante della classe dirigente italiana" (se festa ci sarà, propongo che anche i media e l’informazione restino fermi quel giorno). E sul quotidiano oggi in edicola, addirittura con due pagine e l’intervista all’ex capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, mette in guardia dal pericolo Lega "che forse ("forse", appunto, nda) continua a perseguire il suo intendimento originario di far secedere il Nord".

Contro ogni limite di ragione, l’arguta penna di Massimo Giannini ha scritto su Repubblica (.it) che "la stupidaggine è che la festa del 17 marzo ferma il Paese", riferendosi a un titolo del quotidiano della Lega, la "Padania". Qui l’interesse del giornalista non è tanto quello di chiedersi ragione della polemica, perché è la polemica stessa il ghiotto pretesto (ed è quanto basta!) per attaccare il governo e auspicarsi un "bel cortocircuito per la coalizione forzaleghista".  

Chi ha ragione, allora, chi vuole lavorare o chi vuole festeggiare? Nessuna delle due parti, perché la soluzione ideale sarebbe quella di "lavorare e festeggiare" insieme, ma è impossibile da realizzare. Ciò aiuta a capire, però, la realtà che fa da sfondo alla vicenda. Gli opposti (lavorare e festeggiare) sono i termini del contendere. Il lavorare lascia tutti i cittadini (imprese e lavoratori) nelle precipue posizioni di equilibrio; il festeggiare, invece, favorisce (arricchisce) gli uni (i lavoratori) e penalizza (impoverisce) gli altri (le imprese). Così se dovesse passare la giornata di vacanza, le imprese si ritroverebbero a doverne pagare il conto, ossia a dover comunque retribuire la giornata ai dipendenti e, come costo aggiunto, a sopportare la corrispondente perdita di ricavi per mancata produzione.

Si potrebbe obiettare che questa minore produzione potrebbe essere recuperata facilmente in un paio di giornate di straordinario. E’ vero, ma ciò peggiora ulteriormente la posizione delle imprese. Infatti, in questo modo le imprese verrebbero ulteriormente penalizzate dal dover recuperare la produzione a costi maggiorati, perché il lavoro straordinario è compensato con una retribuzione maggiorata. Un esempio. Prendiamo un’impresa con un dipendente pagato 1.200 euro mensili. Questo lavoratore ha un costo annuo, per l’impresa, di oltre 30 mila euro, il che significa un costo giornaliero attorno ai 120 euro. Senza considerare i costi di improduttività ma soltanto il costo del lavoro, la giornata del 17 marzo, dunque, costerà all’impresa non meno di 120 euro.

Tutto ciò deve servire a riproporre la polemica (il problema) in termini diversi. Non bisogna stare a chiedersi se è sopportabile questo costo da parte delle imprese, ma occorre piuttosto interrogarsi se è giusto accollare questo costo solo ad una parte del collettivo sociale e perché proprio solo a quella parte (le imprese, appunto). E sembra opportuno chiederselo proprio avendo a riferimento la festa dell’Unità d’Italia. Da osservare, per inciso, che anche nel settore del lavoro pubblico le cose non stanno diversamente. Infatti, anche la chiusura degli uffici realizza un costo non preventivato per la pubblica amministrazione che si traduce in una sorta di arricchimento per i pubblici dipendenti e un onere per la collettività. Ciò che distingue il settore pubblico da quello privato, però, è il fatto che nel primo caso (pubblico) il costo ricade su "tutti" i cittadini (attraverso le tasse); nel secondo caso (privato) il costo viene pagato tutto e solo dalle imprese.

Quale soluzione, a questo punto, è auspicabile? Difficile a dirsi. Quella di lavorare esporrebbe alla critica (sulle imprese) di non aver risposto adeguatamente alla spinta etica della commemorazione dell’Unità d’Italia. Quella di festeggiare si tradurrebbe in un’ingiusta penalizzazione del mondo delle imprese. Ci sarebbe una terza via, una soluzione cioè che risponderebbe alla spinta etica e che, altresì, penalizzerebbe meno o non soltanto le imprese: festeggiare a costo zero! Festeggiare, cioè, senza retribuire i lavoratori. In tal modo, non solo verrebbe commemorata, ma sarebbe pure realizzata una vera "unità di Italia(ni)".