Se il Bahrain si ribella è l’ora di dare la spallata ai Saud
24 Febbraio 2011
Il Bahrain è un arcipelago del Golfo Persico incollato all’Arabia Saudita, una delle "petrocrazie" del Golfo, come le chiamano gli esperti, ricche di greggio e manodopera immigrata a basso costo. Siamo rimasti scandalizzati dalle autocrazie e dalle dittature nordafricane ma ci sembra normalissimo che in Bahrain esista ancora la monarchia, costituzionale, certo, ma che sempre monarchia è, vecchio stampo nonostante le aperture degli ultimi anni. Com’è tipico delle storie di cappa e spada, nella lotta per la successione al trono si scontrano gli interessi dell’attuale sovrano – che ha dato per la prima volta al paese un parlamento -, del principe ereditario – che ha fatto come il figlio di Gheddafi, promettendo riforme – e del suo più acerrimo rivale, il capo di stato conservatore che riveste questa carica da quando il paese proclamò la sua indipendenza dalla Gran Bretagna, all’inizio degli anni Settanta. Anche in Bahrain nelle ultime settimane è scoppiata la rivoluzione dei gelsomini, con i manifestanti che occupano le piazze senza intralciare più di tanto lo scorrere della vita quotidiana, e nonostante la repressione poliziesca abbia fatto una mezza dozzina di morti. L’arcipelago è anche uno dei "fronti" della guerra civile permanente che si combatte nel mondo islamico fra sunniti e sciiti, in quanto i primi sono l’elite al potere – una minoranza legata a doppio filo all’altra grande monarchia-guida dell’area, Casa Saud -, mentre gli altri, gli sciiti, rappresentano la grande maggioranza della popolazione, soprattutto quella giovane e arrabbiata, che fa tanto paura alle elite del mondo arabo e musulmano, come ha dimostrato il livoroso discorso di Gheddafi. Egitto e Tunisia sono state delle rivoluzioni giovanili; in piazza a Manama, la capitale del Bahrain, sono scesi a manifestare anche i giovani sunniti.
Gli sciiti si lamentano perché vengono penalizzati nella vita pubblica, nel lavoro, durante le loro manifestazioni religiose (l’aviazione saudita ha fatto delle apparizioni sui cieli dell’arcipelago in occasione di eventi del genere). Vengono accusati di essere una quinta colonna dell’altro stato che si erge a guida del mondo islamico, la teocrazia iraniana. I sovrani del Bahrain però esagerano con la storia delle infiltrazioni di Teheran, smentite recentemente da alcuni file di WikiLeaks in cui diplomatici americani, nei loro dispacci al Dipartimento di Stato, hanno ridimensionato la portata egemonica di Teheran sui paradisi fiscali del Golfo. Qualche anno fa, i sovrani del Bahrain hanno fatto saltare un accordo miliardario per l’importazione di gas con l’Iran dopo che uno degli uomini della Guida Suprema Khamenei aveva detto che il regno è un’appendice storica della repubblica khomenista. A preoccupare maggiormente Washington è la tenuta politica interna degli sceicchi seduti sui ricchi pozzi di petrolio che fanno gola alle compagnie americane. Nell’arcipelago si trova una importante base militare americana e fortunatamente durante le proteste non ci sono state manifestazioni o richieste di chiuderla. Il Bahrain infatti è a un tiro di schioppo dalle coste dell’Arabia saudita, dalla parte orientale del regno per la precisione, dove si trovano i pozzi petroliferi che garantiscono il 10% della produzione mondiale quotidiana di greggio. Anche questa parte dell’Arabia Saudita è a maggioranza sciita, mentre i Saud sono i detentori della fede sunnita, e si sentono gli eredi designati di Maometto. Una sollevazione nell’arcipelago avrebbe effetti collaterali dagli esiti imprevedibili su Ryad, in un momento in cui la gerontocrazia sunnita soffre di un pericoloso vuoto di potere. Il re Abdullah è appena tornato convalescente dal Marocco, il principe Sultan, ministro della difesa, non sta molto meglio, e al principe Nayef, ministro dell’interno, prudono le mani in attesa di eventuali manifestazioni, disponendo delle forze di sicurezza del regno. Non è detto che Casa Saud rimanga immobile se dovesse accadere qualcosa in Bahrain.
Il problema è che tipo di approccio dovrebbero avere l’America e l’Europa, la NATO e l’Occidente, verso questi scampoli di feudalesimo che solo all’ultimo momento sono diventati un nostro alleato, fedele, così dicono. Fino a poco tempo fa i sauditi non facevano altro che contribuire, direttamente o indirettamente, alla diffusione del terrorismo e del fondamentelismo wahhabita nel mondo, attraverso il finanziamento e l’apertura di moschee combattenti dalla Bosnia all’Iraq, dall’Afghanistan all’Indonesia. I regnanti sauditi, i principi e le dinastie del Golfo, non sono mai stati molto meglio dei teocrati iraniani o dei dittatori che hanno impedito la modernizzazione del mondo islamico. In Arabia Saudita si corrono i gran premi di formula una ma alle donne è stato impedito di avere la patente e non sarà certo una monarchia costituzionalista a limitare il potere della casta religiosa, che è sempre stato il vero mentore dei Saud. Se il sovrano del Bahrain, uno stato apparentemente più "liberale" dell’Arabia Saudita, dovesse andare incontro a quella parte dell’opposizione che protesta, lo status quo nel Golfo proseguirebbe a tempo indeterminato, ma se la rivoluzione dei gelsomini si estenderà, e i sauditi cercassero incautamente di intervenire per mantenere l’ordine, gli Stati Uniti potrebbero alzare la voce. Non sarà Obama a rompere un’alleanza di decenni, cementificata dagli interessi economici e finanziari, anche se, prima o poi, potrebbe arrivare un presidente americano disposto ad aiutare chi si batte per avere un mondo con meno palazzi reali e una divisione più equa delle risorse. Se la grande paura degli americani si chiama petrolio si potrebbero riesumare quelle strategie rivoluzionarie di una decina d’anni fa, quando, per rispondere all’11 Settembre (la famiglia di Osama Bin Laden è una delle più ricche della penisola arabica), alla Casa Bianca si studiavano piani per dividere in due l’Arabia Saudita, lasciando il deserto e i cammelli alla casa reale, e restituendo al popolo il petrolio, il diritto a libere elezioni e un primo vero governo democratico. Potrebbe finire come in Iraq, con l’ascesa delle forze politiche e dei partiti di ispirazione sciita amici dell’Iran, sovvertendo vecchie egemonie. Ma anche con una classe dirigente nuova, giovane e meno corrotta. Quella che tutto il mondo arabo aspetta al varco. Cosa accadrà per adesso non è dato saperlo.