Se il centrodestra non vuole prendere altre sberle deve fare le riforme
30 Maggio 2011
E ora che succede? La caduta di Milano e la mancata conquista di Napoli stavano nel conto numerico (voti) di una campagna elettorale condotta dal centrodestra in maniera un po’ sgangherata. Per due motivi: per i toni e i troppi temi nazionali che hanno surclassato quelli di una competizione locale ideologizzandone la portata e per la scelta di candidati che non hanno saputo capitalizzare il loro appeal, o almeno non hanno saputo trasmetterlo fino in fondo all’elettorato. Così è andata e a urne chiuse ci sono i riti delle analisi e della valutazioni al centro del dibattito politico. Ma da oggi in poi l’orizzonte è un altro nel centrodestra: prendere atto della batosta, non attivare il tritacarne di redde rationem invocati o presunti specie dentro il Pdl e soprattutto fare ciò che finora è riuscito solo a metà, le riforme e tra queste le priorità restano fisco ed economia.
Il conto politico si apre adesso. Se è vero che la maggioranza dovrà fare ammenda e puntare su un robusto e concreto rilancio dell’azione di governo, è altrettanto vero che il Pd esce da questo voto con la leadership della coalizione dimezzata: non ha vinto Bersani, ma la sinistra radicale di Vendola a Milano e quella giustizialista del duo De Magistris-Di Pietro a Napoli. E la spinta delle estreme è questione dietro alla quale i democrat non possono nascondersi solo in nome del fatto che le due città-simbolo non sono andate al centrodestra. Perché per Bersani rischia di essere una vittoria di Pirro, come Vendola ieri da piazza Duomo ha fatto capire, ufficializzando di fatto la sua corsa alla leadership dello schieramento. Nè può bastare chiedere le dimissioni di Berlusconi per pensare di aver saldato i conti a sinistra.
La risposta arriva da Berlusconi col sigillo di Bossi: niente passi indietro, mantenere i nervi saldi e concentrarsi sull’agenda di governo. La risposta di un Cav.“combattente” alla “sberla” (copyright Maroni) dimostra due cose. La prima: l’asse Pdl-Lega tiene a dispetto di quanti avevano vaticinato chissà quali sommovimenti, immaginando il Senatur lì pronto a staccare la spina al Cav. Il voto di per sé ha dimostrato che i due partiti sono destinati a stare insieme e portare a termine il programma col quale hanno vinto le elezioni. In questo momento Bossi non ha alcun interesse a far saltare il banco perché insieme al banco salterebbe anche il federalismo, la riforma costituzionale che porta all’istituzione del senato federale e il decentramento degli enti pubblici, ministeri o succursali sul territorio. E per la Lega azzerare tutto significherebbe ripartire da capo.
Sarà sulle cose fatte al governo che Berlusconi e Bossi nel 2013 torneranno davanti agli elettori con in tasca un biglietto di credibilità che può valere un altro giro di giostra. Ed è anche per questo che ipotetici scenari di cambi in corsa alla guida di Palazzo Chigi, oggi più che mai appaiono nient’altro che un esercizio di ‘politica creativa’, oltretutto in un quadro economico internazionale che impone al Paese rigore, politico ed economico. Semmai la sfida è un’altra, per quanto complessa: riuscire a coniugare la tenuta in ordine dei conti pubblici con le misure per ridare fiato a imprese e famiglie. E’ il vero test per la maggioranza nei prossimi due anni.
Il secondo aspetto che l’esito dei ballottaggi evidenzia, riguarda il lavoro di riflessione al quale il Pdl come primo partito della coalizione è chiamato per evitare conte interne che adesso produrrebbero solo macerie e affrontare, invece, il rilancio del partito indicando un cambio di passo ad esempio nella scelta dei candidati o sulle regole interne e perfino sulla stagione dei congressi. Cioè attraverso segnali chiari e netti di una nuova ripartenza, senza pensare che tutto si risolva cambiando alcune pedine nell’organigramma di vertice, piuttosto ragionando sulla consapevolezza che il segnale mandato dagli elettori non può più essere sottovalutato.
Non a caso Gaetano Quagliariello proporrà nella discussione interna al partito di “istituzionalizzare” per legge le primarie perché “su questo terreno non dobbiamo farci scavalcare dalla sinistra o lasciare campo libero alla sinistra”. Il vicepresidente dei senatori Pdl applica lo strumento alla selezione dei candidati locali in modo da garantire un livello maggiore di coinvolgimento e di partecipazione diretta degli iscritti. Tema più volte invocato, ma che adesso e forse per la prima volta sembra entrare nell’agenda di via dell’Umiltà, superando quello che finora era vissuto come una sorta di tabù.
Oggi nell’ufficio di presidenza a Palazzo Grazioli si “aprirà il quaderno” per dirla con Cicchitto e “si ragionerà di governo e partito” ma è chiaro a tutti – o almeno così sembra – che nonostante le spinte di correnti e movimentisti, non è momento di rivoluzionare gli assetti interni, processo che sta nelle cose perché a tutti è ben presente che occorre fare qualcosa – spiegano da via dell’Umiltà – e tuttavia non può subire accelerazioni solo per soddisfare personalismi o rivalse. Come a dire: calma e gesso, lavoriamo per consolidare non per demolire.
Certo, le dimissioni annunciate ieri da Sandro Bondi intenzionato e non da ora a lasciare il coordinamento nazionale del Pdl, rappresentano un punto sul quale avviare il dibattito. Da Bucarest Berlusconi non si sottrae alle domande dei cronisti e parla di “pensamento” sull’organizzazione del Pdl e che sta lavorando per far diventare Alfano coordinatore, ma al di là dei nomi si concentra sull’obiettivo che è e resta il radicamento del partito sul territorio. L’ipotesi del Guardasigilli non è una novità assoluta, da tempo era stato indicato come uno dei ‘papabili’ nello scenario di un coordinamento unico. Ma non è detto che il percorso si compia di qui a breve, intanto perché come sottolinea Cicchitto l’idea di un coordinatore unico dovrà trovare il più ampio consenso dentro il partito e poi perché adesso non sembra essere il superamento del triumvirato la panacea a tutti i mali.
Al netto delle ipotesi, un dato c’è già: attivare una cura rivitalizzante per il Pdl che – è bene ricordarlo – resta il primo partito in Italia e, ad eccezione di Milano e Napoli, dal voto amministrativo non esce con le ossa rotte come testimoniano le vittorie conseguite al Sud, a cominciare dalla Calabria dove l’Udc ha deciso di schierarsi col Pdl.
Già, il Terzo Polo. E’ l’altro tema sul quale il voto amministrativo offre spunti di riflessione, anche in chiave 2013. La performance elettorale dello schieramento di Casini, Fini e Rutelli non è stata esaltante e a fare da vero traino è stata l’Udc che ha praticamente confermato il suo bacino di voti a fronte di un modestissimo risultato conseguito da Fli e da Api. Fini ieri ha detto, in sostanza, che se anche il governo andrà avanti, il berlusconismo è ormai alla frutta, poi ha aggiunto che da uomo di centrodestra non poteva gioire della vittoria di Pisapia e De Magistris.
Peccato che da un anno abbia messo in campo tutto l’armamentario (politico) possibile per indebolire il Pdl e minare la solidità della maggioranza e che nonostante la “neutralità” dichiarata prima dei ballottaggi e puntualmente disattesa, alla fine da una parte si sia schierato per davvero. Il discorso vale anche per Casini. L’analisi sui flussi elettorali mostrata ieri sera a Porta a Porta da Ipr Marketing ha evidenziato ad esempio come a Milano il 62 per cento degli elettori del terzo polo che al primo turno avevano votato per Palmeri, al ballottaggio abbiano votato per Pisapia e a Napoli il candidato centrista Pasquino ha portato in dote a De Magistris l’81 per cento dei suoi suffragi. E se non bastasse, ieri lo stesso Pasquino e il parlamentare centrista Mantini si vantavano di come il terzo polo sia stato determinante per l’esito dei ballottaggi. Alla faccia della neutralità.
Ora, se l’idea di fondo era quella di far cadere Berlusconi su Napoli e Milano, la realtà è che Berlusconi resta al suo posto. Se il tentativo era quello di condizionare la maggioranza a fare in modo che vada oltre il berlusconismo archiviando Berlusconi, è finito contro un muro perché come ribadisce Quagliariello, il Pdl è disposto a dialogare con l’Udc ma è assolutamente ‘indisponibile’ a ‘uscire dal berlusconismo senza Berlusconi’.
Diverso invece il ragionamento del vicepresidente dei senatori attorno a possibili convergenze coi centristi che stanno in alcune considerazioni di fondo: anzitutto il voto amministrativo ha dimostrato che quando Pdl e Udc stanno insieme vincono, come accaduto al Sud, poi l’affinità valoriale ad esempio sulle questioni etiche, oltre al fatto che i due partiti fanno già parte della stessa famiglia europea del Ppe. Detto questo, resta una visione diametralmente opposta su come riallacciare il filo. “Abbiamo bisogno di allargare il centrodestra, visto anche l’allargamento del centrosinistra ma tra noi e il terzo polo c’è un problema: loro vorrebbero farlo sacrificando Berlusconi, noi no”, chiosa Quagliariello.
E’ su questo che anche Casini prima o poi dovrà fare i conti. Lo spostamento a sinistra di Bersani, i condizionamenti che Vendola porterà nell’alleanza, il giustizialismo di Di Pietro sono tutti elementi difficili da coniugare col profilo del leader Udc e soprattutto del suo elettorato. E se finora l’antiberlusconismo ha tenuto tutto e tutti insieme, da domani Casini sa bene che legarsi mani e piedi a Bersani e Vendola potrebbe rappresentare un errore clamoroso. Lo spazio maggiore di manovra resta sicuramente nel campo del centrodestra, ma anche qui non può essere il terzo polo a dettare l’agenda al Pdl. Insomma, per Casini restare per altri due anni a ‘bagnomaria’ potrebbe rivelarsi un boomerang e dunque la decisione su da che parte stare non potrà essere disattesa ancora a lungo.
Se c’è una cosa positiva nella sconfitta elettorale del centrodestra, è che la lezione pare essere servita. La regola democratica è che in politica si vince e si perde. Ma da oggi la storia cambia, stavolta il governo non ha più alibi e l’ultimo avviso ai naviganti si chiama riforme.