
Se il popolo sovrano è, come Gulliver, un gigante incatenato/2

24 Gennaio 2010
Riprendendo le fila del discorso, cos’altro può significare l’espressione “contare qualcosa” se non il potere decisionale, la capacità di fare leggi, per definizione vincolanti per tutti, anche se non nell’interesse di tutti?
A ben riflettere, però, se mettiamo da parte la ‘rappresentazione della politica’ che ogni giorno si svolge sulle pagine dei quotidiani e nei palinsesti televisivi, si arriva inevitabilmente alla conclusione che, lungi dal disporre di tale potere, il gigante popolare è, al pari di Gulliver, impacciato e trattenuto da una serie sterminata di lacci e catene. All’origine della sua paralisi (o del suo incedere lentissimo e privo di efficacia reale) troviamo tre ostacoli riferibili alle sfere del diritto, della sociologia, della cultura politica.
In virtù della prima, l’ambito delle questioni sulle quali il popolo è chiamato a pronunciarsi si fa sempre più ristretto. Non soltanto i diritti civili e quelli politici sono indisponibili, e quindi sottratti al dibattito pubblico — com’è giusto che sia e su questo punto ci si trova tutti d’accordo, a destra come a sinistra — ma lo sono diventati, o lo stanno diventando, anche i ‘diritti sociali’ non di rado in conflitto come i primi. E inoltre capita sempre più spesso che la legislazione ordinaria — v. lo Statuto dei lavoratori — venga, non solo nel comune sentire del mondo del lavoro ma anche nelle sentenze della magistratura, assimilata di fatto alle norme costituzionali — sicché sarebbe antidemocratico chiamare il popolo a pronunciarsi sull’art. 18 dello Statuto, allo scopo di definire meglio che cosa debba intendersi per giusta causa o giustificato motivo in un licenziamento.
Dietro i diritti civili e politici, va ricordato, c’è la dea Libertà, dietro i diritti sociali, c’è la Dea Eguaglianza. Le due dee sono dispensatrici, come voleva don Benedetto Croce, di ‘alcinesche seduzioni ma, nondimeno, non sempre paiono disposte a collaborare tra loro. E si può capire giacché si tratta di una collaborazione, va sottolineato, per nulla facile e scontata, come appare alla retorica politica dominante — una retorica iscritta, peraltro, anche nella nostra Magna Carta —: non si vede, infatti, come, in certi casi, si possa allargare l’ambito dell’eguaglianza senza restringere quello delle libertà (con buona pace degli azionisti e del mio amatissimo maestro Guido Calogero che, con la sua filosofia liberalsocialista, aveva fatto del liberalismo e del socialismo una coppia di fratelli siamesi, la cui separazione chirurgica avrebbe significato la morte di entrambi).
Accanto ai limiti ‘de jure’, però, ci sono, forse ben più insormontabili, quelli ‘de facto’. E qui veniamo alla seconda sfera, la sociologia. I limiti ‘de facto’ sono costituiti dal cosiddetto ‘pluralismo sociale’ che, in concreto, si traduce in un diritto di veto esercitato dai sindacati, dalle categoria professionali, dalle chiese, dai più vari gruppi di interesse e di pressione ogni qualvolta viene avanzata una proposta di legge percepita come lesiva degli interessi dei “soggetti del pluralismo” — siano essi operai, magistrati, medici, professori, avvocati etc. Come ho già avuto modo di far rilevare in questa sede, pluralismo sociale e democrazia liberale sono obbligati alla convivenza, giacché senza una reale articolazione di classi, ceti, professioni, chiese e culture, a porre limiti al potere resterebbero solo quelli iscritti nelle carte costituzionali; ma è anche vero che quelle articolazioni non sono’ convergenze parallele’ destinate fatalmente a sfociare nel gran lago dell’interesse collettivo. Il liberalismo senza il pluralismo è vuoto, ma il pluralismo senza il liberalismo è cieco: si fanno leggi e riforme perché si dispone di risorse concrete prodotte dalla ‘società civile’ — altrimenti, per dirla brutalmente, dove trovare i soldi? — ma qualora potenti settori della società civile vengano lesi, il loro veto blocca, talvolta, il più equo e ragionevole dei compromessi.
Sindacati e categorie, che non raccolgono neppure un decimo dei lavoratori del braccio e della mente che operano in un settore, detengono un diritto di veto, in grado di bloccare riforme improrogabili dettate dall’interesse collettivo, che guarda non solo ai produttori di beni e di servizi ma anche ai consumatori, alla ‘comunità degli utenti’.
E come se non bastasse, e siamo al terzo punto, ci si mette di mezzo la ‘cultura politica’ nazionale che ha sempre guardato al demos con una diffidenza rafforzata oggi in piena età di ‘mass society’. E’ la diffidenza, iscritta nella Costituzione italiana, per il popolo ‘non inquadrato’, non disciplinato ed educato da partiti e associazioni varie. Senza leader responsabili, autorizzati a fissare l’ordine del giorno dell’agenda politica, si teme la ‘deriva plebiscitaria’, la tendenza della “plebe” a decidere essa, al di fuori di qualsiasi controllo da parte del ‘palazzo’, quali sono i bisogni più urgenti da soddisfare.
“I nostri Stati sono pieni di istituzioni che non rispondono al popolo” ha scritto nell’articolo, La democrazia e i suoi miti — ‘Corriere della Sera’ del 21 ottobre 2003 — con palese soddisfazione uno studioso che può considerarsi l’espressione più coerente del momento giuridico dell’”ideologia italiana”, Sabino Cassese.” I governi (e anche i Parlamenti) sono sottoposti al controllo di giudici; sono limitati dall’ azione di autorità indipendenti e di organi sovranazionali; debbono operare attraverso funzionari scelti secondo il criterio del merito e vincolati al rispetto della legge; amministrano a mezzo di procedure e sottoponendosi a regole; oltre a essere giudicati ogni giorno da agenzie di rating e dall’ opinione pubblica. Insomma, la politica non è interamente libera, perché la democrazia è solo una delle componenti di uno Stato costituzionale”. E citando la polemica del sottosegretario, che, “in lite con il suo ministro, dichiarò l’ 8 aprile 2002 che bisognava ‘rispettare la volontà politica dei nostri elettori, che non vogliono l’ intervento sull’ Ara Pacis, non vogliono l’ arte dei tubi di gomma alla Biennale’” Cassese è lapidario: quel sottosegretario “. Aveva torto. Il popolo non prende decisioni estetiche o architettoniche. Anzi, non prende alcuna decisione (salvo i referendum). Si limita a scegliere chi dovrà decidere e, poi, a confermarlo o non confermarlo, in relazione alla bontà delle decisioni prese”. All’interno della ‘filosofia del diritto’ iscritta nella nostra Carta Costituzionale, Cassese ha ragione ma perché dovremmo considerare un esempio perfetto e ineccepibile di democrazia quella in cui “le istituzioni in cui viviamo si fidano tanto poco delle scelte popolari”? L’Italia è più democratica della Svizzera perché non chiamerebbe mai il popolo a pronunciarsi non sul diritto accordato agli islamici di costruire una moschea ma sulla facoltà di erigere, accanto alla moschea, un minareto che alteri (che poi sia vero o no è altro problema) il paesaggio storico di una città? Forse i Romani avrebbero impedito lo scempio dell’Ara Pacis ma,evidentemente, per Cassese, consultarli sarebbe stato un ‘vulnus’populistico per la democrazia, che solo “ in senso enfatico” può definirsi governo di popolo laddove, come per lui è giusto che sia, è governo è, de facto e de jure,” nelle mani degli eletti” e lì deve rimanere.
Non meraviglia che questa sfiducia cronica abbia portato alla mutilazione dell’istituto, democraticissimo, del referendum, in Italia, com’è noto, solo abrogativo e quel che è assai peggio, valido solo se vota il 51% degli aventi diritto (un esempio da manuale di affossamento della democrazia in nome di un principio maggioritario portato all’eccesso. In base a questa forca caudina, una questione che sta a cuore al 40% della popolazione ma lascia del tutto indifferente il resto, sia che si risolva in un senso sia nell’altro, non può venir rimessa alla volontà di quella parte del popolo che ha partecipato, con convinzione e senso civico, alla votazione referendaria).
Alla luce di queste considerazioni, l’ambito del potere legislativo — sia esso esercitato dal popolo o dai suoi rappresentanti eletti nel rispetto delle regole del gioco sia esso caduto nelle mani di impresentabili avventurieri, parvenus della politica — non è troppo ma, al contrario, troppo poco. E non contribuisce, certo, ad allargarlo un malcostume della mente — sempre più diffuso nelle scuole, nelle università, nelle terze pagine dei grandi quotidiani ‘indipendenti’, nelle trasmissioni ‘coraggiose’ in onda nelle ore di maggiore ascolto — che vede in ogni legge sgradita un attentato alla Costituzione, una minaccia per lo ‘Stato di diritto’: un modo sicuro, questo, per creare pericolosi allarmismi generatori, sui tempi medi, di future guerre civili.
Prendiamo il caso delle leggi che disciplinano l’emigrazione. Tralasciando qui il parere aberrante di chi ritiene incostituzionale ogni divieto di accesso sul nostro territorio — aberrante non per le nobili motivazioni etiche che lo ispirano ma sotto il profilo politico, giacché l’accesso indiscriminato segnerebbe la fine dello Stato come comunità di destino, libera di decidere chi deve farne parte — si può essere favorevoli a una linea più ‘aperta’ come a restrizioni più severe. Entrambe le posizioni difendono interessi e valori, entrambe possono venire sostenute da buone argomentazioni e dai soggetti ideologicamente più lontani (sulla generosità nei confronti dei clandestini, non è casuale, concordano ‘Avvenire’ e ‘Il Manifesto). Orbene, cos’altro è la democrazia se non il diritto riconosciuto al popolo di decidere in favore dell’una o dell’altra politica emigratoria? Può esserci democrazia se non è il ‘demos’ l’arbitrio supremo nelle grandi controversi che dividono una nazione e prefigurano trasformazioni epocali? Si dirà: ma non si affidano, in tal modo, al popolo competenze che spettano ai suoi ‘rappresentanti’. Se così non fosse perché ci saremmo presi la briga di votarli e di farli eleggere? Non è difficile rispondere: il principio rappresentativo è un architrave della ‘democrazia dei moderni’ ma l’appello diretto al popolo sovrano, quando richiesto da un numero rilevante di cittadini, non è ancora più democratico? E non ricorda le più antiche e civili democrazie europee, quelle dei primi cantoni svizzeri?
I governi europei che hanno indetto un referendum popolare chiedendo ai cittadini di decidere in merito all’adesione del loro paese alla Comunità di Bruxelles non hanno mostrato un senso ben più alto della dignità nazionale rispetto all’Italia che ha rimesso la scelta più impegnativa dell’ultimo mezzo secolo alla saggezza di un Consiglio dei Ministri e del Presidente della Repubblica?
Non dimentichiamo di essere entrati nella più sciagurata di tutte le guerre — quella del 1915/18 — senza consultare né il popolo, che ne sarebbe stato la prima vittima (ma nessun altro stato, sia della Triplice Intesa sia della Duplice Alleanza, lo fece), né il Parlamento — per la consapevolezza che la maggioranza giolittiana sarebbe stata contraria a un intervento che, come aveva lucidamente previsto ‘l’uomo di Dronero’, avrebbe travolto il debole sistema politico italiano, sia in caso di vittoria che in caso di sconfitta). Allora fu quella che Pietro Ingrao avrebbe in seguito chiamato “la rilevanza costituzionale della piazza” a decidere: la minoranza interventista — democratica e mazziniana o sabauda e conservatrice, anarco-sindacalista o nazionalista — era la ‘nazione vivente’, il paese reale contrapposto a quello dei ludi cartacei e delle rappresentanze parlamentari addomesticate. Era giusto dare la parola al popolo ma al popolo, espressione della ‘volontà generale’, che in un paese arretrato, come l’Italia, costituiva una esigua minoranza, non al popolo espressione della ‘volontà di tutti’ ovvero dei più vari interessi e valori. Una “distinzione”, per citare ancora una volta Alexis de Tocqueville, “che permette di agire in nome delle nazioni senza consultarle e di reclamare la loro riconoscenza calpestandole”.
Della sostanziale sfiducia che la cultura politica egemone ha per il “paese reale” — ma quello vero, quello che, nei primi anni del secolo, votava per Giolitti, per Turati e, in seguito, avrebbe dato al partito di Sturzo ben 100 deputati — testimonia, in modo significativo, l’uso spregiativo dell’espressione “uomo qualunque”. Il “common man”, traduzione inglese dell’”uomo qualunque” o dell’”uomo della strada”, nelle vecchie democrazie anglosassoni, non è l’elemento plebeo, il virus che inquina una sana vita democratica ma il detentore, almeno nominale, della sovranità.
Un politico che in Italia dicesse ai suoi elettori: ”ragiono come un uomo qualunque”, sarebbe sepolto sotto una coltre di disprezzo. E’ il contrario di quel che avviene nell’America Settentrionale dove i candidati alla Presidenza o alle alte cariche statali e federali, anche se non ragionano come il ‘common man’, fingono di avere i suoi stessi gusti, le sue stesse paure, le sue stesse aspettative, di essere, insomma, “uno come loro”, anche quando appartengono alle più raffinate elite culturali, come Woodrow Wilson, o sociali, come Franklin Delano Roosevelt.
Con questi rilievi, non intendo affermare che Gulliver sia completamente immobile. A volte riesce a fare qualche passo e, incuneandosi tra mille veti, a infilare qualche legge che, investendo i diritti civili sanciti dalla nostra Costituzione — una materia di cui, in un paese civile, è competente il giudice non il legislatore, anche quando investe temi come la bioetica che vede scientisti, da un lato, e integralisti cattolici, dall’altro, impegnati a imporre a tutti i loro codici di valore — porta gli oppositori di una legge illiberale a denunciare la ’tirannia della maggioranza’ e a suffragare la tesi, del tutto priva di riscontri empirici, che la maggioranza espressa dal legislativo “possa tutto”. In realtà, come capita ai poteri divenuti troppo deboli, Gulliver può piazzare ancora qualche colpo basso (come, a mio avviso, è la legge 40) ma non dispone più delle prerogative sovrane che un tempo facevano del Parlamento il ‘sancta santorum’ della volontà popolare. E’ abbastanza emblematico il caso della Francia alla vigilia della Grande Rivoluzione: un monarca ormai ridotto a un’ombra di quel che era stato il suo grande avo, Luigi XIV, si prendeva la soddisfazione, di tanto in tanto, di far passare qualche decreto ispirato ad arbitrio e spirito di ‘revanche’, le corti giudiziarie (i Parlamenti), dal canto loro, riempivano il vuoto di potere e spadroneggiavano in tutti i campi, rivendicando un’autorità che nessuno aveva ad esse assegnato ed esercitandola in maniera non meno arbitraria e arrogante. ’De te fabula narratur’ verrebbe da dire con riferimento all’Italia dei nostri giorni, pensando alla Roccella da una parte e a ‘Mani pulite’ dall’altra….