Se il protezionismo torna d’attualità (non solo negli Usa di Trump)
30 Novembre 2017
Christine Lagarde, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale interviene in maniera diretta su un dibattito che sta investendo l’economia mondiale e che, invece, pensavamo archiviato da tempo: il protezionismo. “Se ci fosse, il protezionismo, danneggerebbe le economie che sono molto aperte e basate sul libero ed equo movimento di beni e servizi. Affinché il commercio continui a essere un motore globale della crescita, gli accordi devono essere migliorati” anche per includere regole su proprietà intellettuale e pratiche industriali. “Le regole sono cambiate – ammonisce il Presidente degli Stati Uniti – tutti i Paesi che hanno rapporti commerciali con noi sanno che le regole sono cambiate. Gli Stati Uniti devono essere trattati in modo equo e reciproco. Gli enormi deficit commerciali devono scendere rapidamente!”. Fino a bocciare senza appello gli accordi commerciali firmati dalle passate amministrazioni e ispirati da una politica libero-scambista che, da Donald Trump, vengono definiti “spettacoli dell’orrore”.
La lunga crisi economica di inizio millennio, la concorrenza dei paesi cosiddetti emergenti, la crescita vertiginosa del Pil della Cina, proprio negli anni che hanno devastato l’economia dell’occidente, l’enorme avanzo commerciale tedesco che sta destabilizzando il progetto di Europa Unita, hanno, dunque, riportato d’attualità il protezionismo e, più in generale, il ruolo dello Stato nell’economia. Il tema non è confinato agli Stati Uniti e al suo Presidente, ma sta investendo l’Unione Europea dove la Francia e la Germania temono sempre più la concorrenza proprio della Cina e pensano a misure protezionistiche. Si inizia a far strada la richiesta di interventi legislativi e regolamentari sulla scia di quelli vigenti negli Stati Uniti con la finalità di rendere impossibile la vendita di asset strategici a potenze straniere. Non si tratta di un capriccio di questo o quel leader ma di un altro degli effetti prodotti dalla crisi economica che così si mostra sempre più strutturale. La deflazione, come è evidente, riduce i tassi di profitto, rende difficile la circolazione del capitale e la finanza, che pure può fare arricchire qualcuno, non crea certo né lavoro né prospettive di sviluppo. La tentazione protezionista diventa naturale.
In realtà nulla di nuovo sotto il cielo. Andando in dietro nel tempo, nel 1873, dopo trent’anni di espansione economica ininterrotta grazie alla quale l’economia di mercato si era imposta ovunque, negli Stati Uniti prima e in Europa dopo, arriva la crisi. Il liberismo, con la cieca fiducia nelle capacità del mercato di autoregolarsi, era stato il traino di un’espansione mai conosciuta fino ad allora. Ma il 1873 interrompe i sogni di un futuro segnato da un inarrestabile quanto rapido progresso e con il fallimento della grande banca americana di Jay Cooke, pilastro della finanza statunitense, inizia la prima crisi globale di natura economico–finanziaria. Il fallimento di quella banca dà il via ad una ondata di panico tale da travolgere e affossare l’economia americana. Una manovra a tenaglia: le aziende in crisi non pagano i debiti; i cittadini ritirano i risparmi; le banche hanno sempre più difficoltà nel concedere credito; le aziende cercano di ridurre i danni abbassando i prezzi dei prodotti al consumo. E così riduzione dei margini di profitto, abbassamento ulteriore dei salari e licenziamenti. Un pericolosissimo circolo vizioso, un’economia che tende a deprimersi sempre di più, un vero e proprio cataclisma che durerà oltre vent’anni e getterà le basi della Prima Guerra Mondiale. In Europa le cose andarono anche peggio a causa della lunga crisi agricola causata dalla concorrenza dei prodotti provenienti da oltreoceano e da una tecnologia decisamente all’avanguardia (sviluppo dei mezzi di trasporto e nuove tecniche di conservazione dei prodotti) che realizzò livelli di produttività mai conosciuti. Ecco che, allora come oggi, per frenare la concorrenza dei prodotti extraeuropei vennero auspicate drastiche misure protezionistiche che andarono a scontrarsi con la cieca fiducia nel libero mercato professata e praticata fino a quel momento. Il mercato lasciato libero di agire perché soltanto così e soltanto al suo interno è in grado di trovare le soluzioni ai propri problemi, le uniche che posso realizzare nuovi e sempre più avanzati equilibri, proprio quel mercato, reagisce alla crisi chiedendo interventi esterni. Una crisi senza precedenti nel mondo moderno che da crisi economica diventa rapidamente crisi sociale e di civiltà e costringe i Paesi dell’Europa a rivedere ogni certezza e a rimettere in discussione le proprie scelte.
Alla crisi del 1873 seguì un’altra, nel 1929, e un’altra ancora, quella del 2008, dalla quale non siamo ancora definitivamente usciti. Ci troviamo, di nuovo, dinanzi a problemi dalla portata epocale, la cui natura e i cui tratti ben conosciamo, un po’ meno conosciamo gli esiti. Una mutazione radicale degli equilibri economici con la necessità dell’intervento della sfera pubblica, se non più nazionale, di certo soprannazionale, dal quale, comunque la si voglia vedere, sarà, ancora una volta, impossibile prescindere.
* Segretario Generale Associazione Nazionale fra le Banche Popolari