Se il Sud diventasse una macroregione italiana ed europea

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Se il Sud diventasse una macroregione italiana ed europea

15 Novembre 2012

Sono 140 anni che si parla di “questione meridionale”, almeno stando agli storici secondo cui l’espressione fu utilizzata per la prima volta nel 1873 dal deputato Antonio Billia per indicare le condizioni di arretratezza del Sud della penisola rispetto al Nord più ricco ed evoluto. Sui motivi del ritardo tanto è stato detto e scritto e non è questo il tema che si vuole affrontare in questa sede. Quello che è certo è che le ricette adottate in un secolo e mezzo non hanno risolto il problema. Occorre allora guardare con occhi nuovi a soluzioni diverse. Lo scopo di questo intervento è quello di tentare di dare una risposta al quesito: come potrà il Sud avere un ruolo non più secondario in Italia e in Europa?

Durante la campagna elettorale siciliana abbiamo sentito ripetere il solito ritornello che il Sud deve contare di più a Roma. Si, d’accordo. Ma come? Facendo forse leva sulla classe politica e amministrativa che si ritrova? Mettendo sul piatto della bilancia un PIL da Paese dell’Europa orientale? O, forse ancora, riproponendo stantii discorsi sulle potenzialità inespresse e sulle mille cose che si potrebbero fare e che, invece, non si faranno mai?

Escludiamo qualsiasi ipotesi di Piano Marshall per il Mezzogiorno, dal momento che la congiuntura economica impone di restare con i piedi per terra. Ed escludiamo pure l’ipotesi di ampliare la fiscalità di vantaggio per attrarre investimenti nazionali ed esteri: l’Europa non lo consente e gli investitori stranieri dimostrano di preferire di gran lunga l’Italia settentrionale per motivi facilmente intuibili.

Ciò che manca al Sud è il suo essere “soggetto”. Facciamo qualche semplice esempio ponendoci alcune domande. Come può la Basilicata pensare di contare qualcosa a Roma o a Bruxelles con una popolazione pari a quella della provincia di Reggio Emilia? E la Calabria, che ha la popolazione di Torino e del suo hinterland ma il cui contributo alla ricchezza nazionale è quello di Cuneo? La Campania, invece, con quasi sei milioni di abitanti è la regione più popolosa del Mezzogiorno, ma ha un PIL bassissimo, nettamente inferiore alla media europea e ha un numero di addetti all’industria paragonabile a quello di una media città del Nord. Mentre la Puglia, la regione più dinamica fra quelle del Mezzogiorno, contribuisce alla ricchezza nazionale per un modesto 5%. Se questi sono i numeri che il Sud può mettere sul tavolo per far sentire la propria voce è naturale che abbia scarso peso specifico nel determinare le scelte che lo riguardano, soprattutto a livello europeo.

Ma se provassimo a immaginare a una macroregione meridionale, il quadro cambierebbe radicalmente. Se la popolazione del Sud non fosse frantumata in sei o sette regioni e fosse invece concentrata in un’unica regione, questa avrebbe il numero degli abitanti dell’Olanda e del Belgio messi insieme. Il PIL unitariamente considerato di tutte le regioni del Mezzogiorno sarebbe superiore a quello della Lombardia, che è fra le cinque regioni con PIL più elevato d’Europa. E sarebbe equiparabile, o in alcuni casi addirittura superiore, a quello di molti Stati europei di media grandezza, come Svezia, Portogallo, Danimarca, Belgio, Austria e Irlanda. Una macroregione che partisse dal Volturno e che terminasse alla punta più meridionale dello Stivale (escludendo eventualmente le sole regioni a statuto speciale), avrebbe ben altro peso nello scacchiere nazionale ed europeo. Chi potrebbe ignorarne la presenza?

Pertanto, a parere di chi scrive il Sud dovrebbe ergersi a potenza, sia dal punto di vista demografico, sia dal punto di vista economico. La fusione delle attuali regioni del Mezzogiorno (ciascuna delle quali, singolarmente, poco influente nelle sedi decisionali) in un’unica grande regione trasformerebbe il Sud da entità subalterna a soggetto primario.

Quello che oggi manca al Sud, invece, è una sua identità istituzionale, che lo faccia uscire dalla condizione di debolezza in cui versa. Senza una rappresentatività in termini politici, il Mezzogiorno non può pensare di ricevere l’ascolto che merita.

Si potrebbe obiettare che è compito del governo nazionale condurre a unità le esigenze delle varie zone del Paese e farsi portavoce degli interessi nazionali. Verissimo. Ma è veramente così? Verrebbe allora spontaneo chiedersi il motivo per il quale quasi tutte le regioni europee abbiano propri uffici di rappresentanza a livello europeo e, nel caso delle regioni maggiori, anche nei luoghi “che contano”, vedi New York e Pechino. Alcuni di questi uffici funzionano bene e sono in grado di intercettare investimenti e flussi turistici che diversamente prenderebbero altre direzioni. Ma si tratta sempre di regioni “forti”. Quelle più deboli rimangono senza voce e invisibili.

Occorre anche considerare che, oggi, le decisioni più importanti vengono sottoposte al vaglio della Conferenza Stato-Regioni, dove è illusorio pensare che il piccolo Molise possa contare quanto la Lombardia o il Veneto. E’ vero che le regioni tendono ad assumere posizioni convergenti quando sono in gioco interessi comuni, ma quando entrano in ballo interessi locali la situazione cambia radicalmente.

Altra possibile obiezione è che l’Italia è il Paese dei campanili e dei localismi e che nessuno è disposto a rinunciare alla propria identità territoriale. E’ un nobile sentimento quello dell’appartenenza alle origini e merita rispetto e considerazione. Ma l’identità è un fatto interiore che prescinde dalla geografia politica, non andrebbe perduta. I sudtirolesi hanno forse perduto la loro forza identitaria dopo quasi un secolo dall’annessione? No, anzi. Esiste un termine, Heimat, difficilmente traducibile, che esprime proprio il legame con le origini. E i romagnoli, gli irpini, i lucani, hanno mai smesso di considerarsi tali pur essendo inseriti in contesti regionali più ampi? Anche delle nuove identità nazionali occorrerà tenere conto: l’ISTAT ci dice che nel 2030 l’Italia sarà popolata da dieci milioni di cittadini stranieri, che non avvertiranno lo stesso legame col territorio di residenza. Quindi, viva le diversità, ma non scadiamo nel provincialismo: la distanza fra Napoli e Potenza è addirittura inferiore a quella esistente fra un capo e l’altro di Los Angeles!

Penso, quindi, che l’unificazione del Mezzogiorno in un’unica macroregione sia un’idea forte. Ma non certo fantascientifica: al Sud occorre una clamorosa spinta innovatrice anche sul piano istituzionale, laddove le precedenti ricette hanno fallito per quasi un secolo e mezzo.