Se il “woke” politicamente corretto aiuterà Trump a vincere le presidenziali
09 Novembre 2019
di Vito de Luca
Barack Obama, l’ex presidente degli Stati Uniti, il quale è anche un grande uomo di cultura, nei giorni scorsi, l’aveva detto. Più o meno ha sostenuto di dare un taglio alla cultura cosiddetta “woke”, quel politicamente corretto, usato soprattutto dai suoi del partito democratico Usa, utilizzato come linguaggio tutto teso a mostrare un astratto “dover essere” delle cose, in maniera manichea. «Il mondo è complesso», ha detto Obama, molto intelligentemente, per sottolineare che le ragioni, anche politiche, possono albergare nell’una e nell’altra parte. Ma i dem sembrano non voler capire che nel novembre 2020 l’impeachment di Trump, avviato nei giorni scorsi dalla Camera dei rappresentanti, sarà dimenticato e che la grande battaglia elettorale per le presidenziali sarà tra la riaffermazione del tradizionalismo e il multiculturalismo woke, in una corsa in cui a tagliare il traguardo per primo sarà, ancora una volta, quel sentimento, orgoglioso, di sentirsi ancora americani, e con i propri, secolari, valori.
Non si tratta, come vuole il linguaggio delle élites, di una guerra culturale che per intensità rievoca la guerra civile. Secondo il mainstream dominante, super (nel senso che supera) identitario e nazionale, liberal e pseudo progressista, vi sarebbe da una parte l’estremismo ideologico trumpiano, dettato dalla necessità di tenersi gli elettori bianchi di fede evangelica, l’81% dei quali votò per Donald nel 2016, e dall’altra il dogmatismo che porta i dem (e a cascata la sinistra europea) all’ossessione verso quella che il filosofo francese Didier Eribon chiama la politica delle identità, tutta sbilanciata a favore di quelle che sono definite minoranze. Il dogmatismo liberal, che sembra aver ripreso un certo vigore anche all’indomani delle effimere, e quasi scontate, recenti vittorie del partito dell’Asinello in Kentucky e Virginia, con i repubblicani vittoriosi in Mississippi, con Tate Reeves, non ha compreso che i dem si sono alienati non solo dalla classe operaia, ma anche dalla classe media. Una maggioranza esausta che non appartiene a nessuno dei due campi culturali, che non ha partito preso e che non se la passa bene da un ventennio: il suo reddito dal 2000 si è abbassato, ma i dem voltano lo sguardo altrove. Avversari di questo tipo, come Warren, Sanders o altri, che non intendono o non vogliono intendere il monito di Obama, non faranno altro che facilitare il lavoro di Trump, il quale ha ben compreso, non solo come far ripartire l’economia Usa, anche attraverso l’introduzione del suo piano fiscale e con l’abbattimento della disoccupazione, ma anche come cogliere il sentimento e lo spirito del senso comune, disprezzato dai suoi antagonisti.
A Trump basterà motivare i suoi fedelissimi negli Stati decisivi, con i suoi richiami all’essenza dell’essere americano, considerati, al contrario, quasi un insulto, per i dem e per i portatori del mondialismo senza confini. Il dottrinarismo liberal senza identità e salottiero darà un appoggio a Trump anche con i suoi tentativi di veicolare messaggi e schemi concettuali, come quello, ora in voga negli ultimi giorni. Da quando il presidente ha annunciato il suo trasferimento in Florida, lasciando New York, seguito da uno sprezzante «Good Riddance», da parte del governatore dello Stato, Andrew Cuomo, il «Daily Show» di Trevor Noah ha cominciato a fare di Trump un bersaglio sarcastico, realizzando persino un’estensione per Chrome e Firefox che rimpiazza automaticamente il nome di Donald Trump con l’espressione Florida Man, il nuovo meme che impazza sulla Rete (considerato il peggior super eroe del mondo). L’Uomo della Florida suggerisce di bombardare col nucleare gli uragani, per esempio, oppure Uomo della Florida sostiene di essere abbastanza intelligente da commettere reati. Tutta acqua, o meglio “uragani”, come quelli che colpiscono purtroppo spesso la Florida, per il mulino di Trump.