Se la Chiesa predica il diritto mite e il dovere dell’accoglienza

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Se la Chiesa predica il diritto mite e il dovere dell’accoglienza

25 Gennaio 2009

Sabato scorso Monsignor Gianfranco Bottoni, responsabile delle relazioni ecumeniche e interreligiose della Diocesi di Milano, nella bella trasmissione curata da Gabriella Caramore su Radio 3, ‘Uomini e Profeti’, ha tessuto l’elogio della mitezza, richiamando il noto saggio di Norberto Bobbio e quelle posizioni etico-giuridiche che si rifanno al ‘diritto mite’.

Che un religioso possa avere tanta considerazione per tali posizioni, rappresentate da intellettuali militanti che guidano le schiere laiciste in guerra col Vaticano e con Papa Ratzinger, può essere oggetto di meraviglia—anche se viviamo in un paese come il nostro, che vive di anomalie e di contraddizioni—ma certo non è affare che ci riguardi. Al di là dell’apprezzamento legittimo per chi milita nel campo di Agramante, il teologo avrebbe dovuto mostrare, però, una maggiore competenza in fatto di‘mitezza’ nel campo dei rapporti giuridici. Il ‘diritto mite’non ha come ‘oppositum’la ferocia ma la ‘certezza’. In parole povere, alle norme ‘certe’, che colpiscono in maniera inflessibile il povero e il ricco, l’ignorante e il sapiente, la nuova ‘filosofia del diritto’ tanto apprezzata  da Bottoni vorrebbe sostituire norme <miti> scaturite, in sostanza, dal basso, dal confronto tra le parti, da un accordo fondato sull’equità. Sarebbe, sicuramente, una ‘buona cosa’, un ritorno alla comunità concreta, viva e reale, fatta di ‘persone’ e non di ‘individui’, se non ci fosse il piccolo inconveniente che, al tavolo delle trattative e del bargaining permanente, finirebbero per contare di più quanti hanno dietro di sé la forza, fosse pure la forza del numero.

Ancor meno convincente è stata l’invettiva contro i governi  che non accolgono i poveri del mondo che bussano alle porte dei ‘paesi ricchi’. Tra gli ‘umiliati e offesi’ della terra, che sbarcano a Lampedusa, c’è Cristo : rispedendo indietro chi si rivolge a noi per aiuto non ammettiamo alla nostra mensa il Figlio di Dio. Al di là del rispetto per il religioso, è una tesi che, personalmente, condivido toto corde. Parafrasando Per chi suona la campana di John Donne, la sofferenza <di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità>. E’ la grandezza e il <genio del cristianesimo> che nessun ateo razionalista riuscirà a cancellare dalla coscienza e dalla cultura dell’Occidente. Sennonché, nel nocciolo duro della nostra civiltà si trova anche la distinzione tra morale e politica, salutare per entrambe: per la morale che ha buttato alle ortiche lo spirito della crociata e per la politica che ha rinunciato alla divinizzazione di Cesare.

La chiusura delle porte a quanti ‘hanno fame e sete’ in senso letterale—e non solo ‘di giustizia’—è, sotto il profilo etico, una colpa di cui saremo chiamati a rispondere (se esiste) davanti all’Eterno: ma, attenzione, è una colpa che riguarda ogni <comunità di vita> e non solo quella <politica>. In altri termini, sono molti (e noi tra questi) quelli che, dimezzando il proprio tenore o, semplicemente, rinunciando al superfluo, potrebbero far stare meglio gli altri. Come sanno associazioni come i Padri comboniani o l’ASSEFA, pochi centinaia di euro, sottratti ai nostri consumi, possono rappresentare la sopravvivenza o l’istruzione per i villaggi del Terzo Mondo. La morale, però, è affare di coscienza e la coscienza riguarda gli uomini <uti singuli>– non astratte entità collettive– e la loro disposizione a sacrificare tempo, denaro e, al limite, la stessa vita, per <gli altri>. Come ha detto, con una punta di perfida ironia, Milton Friedman,non c’è nulla di più bello della solidarietà umana…coi nostri soldi!. Ora questo è il punto: il politico raccoglie le risorse sociali e le destina alla conservazione e al rafforzamento della ‘comunità politica’ (lo Stato) che gli è stata data in custodia. Il suo agire, ispirato all’etica della responsabilità, non può essere quello del priore che, nel suo convento, dà una scodella a tutti i mendicanti…finché ce n’è. Se la cucina si svuota, specialmente in democrazia, è chiamato a render conto agli elettori. Ciò significa che, quando si tratta di spendere i <soldi degli altri>, occorre un esame accurato dei costi e dei benefici e, se ci si pensa bene, nell’interesse stesso degli altri. Uno stato che, per largheggiare nell’accoglienza, fosse causa di profondi mutamenti sociologici, conflitti culturali laceranti, abbassamento dei salari—grazie all’offerta inesauribile di forza-lavoro–, impoverimento economico di tutti i ceti, fuoruscita dall’economia di mercato, non solo danneggerebbe i suoi cittadini ma ne farebbe altrettanti ‘poveri’ costretti a bussare alle porte delle nazioni che un tempo avevano il suo stesso standard di vita. L’eventualità è fuori questione ma richiama un buon senso antico: che una comunità politica, come una fabbrica, non è un ente di beneficenza ma un’impresa che obbedisce a una sua ‘ragion di Stato’, a una logica ‘politica’ appunto e non etica ma che ,nondimeno, proprio con il suo ‘successo’, fornisce all’etica <l’argent qui fait la Messe> (Senza Pietro Bernardone, è stato spiritosamente osservato, Francesco non avrebbe avuto nulla da dare ai poverelli d’Assisi). Il grande imprenditore nordamericano promuove la ricerca, fonda Ospedali e Università, finanzia gallerie e sale da concerto grazie al successo dei suoi manufatti sul mercato; lo Stato che garantisce un giusto equilibrio tra entrate e uscite, che non penalizza la ricchezza ma le impone modici carichi fiscali sufficienti a mantenere scuole e strade, assistenza sanitaria e previdenza sociale, è uno stato che può permettersi aiuti consistenti al Terzo Mondo. Il fatto che in democrazia la natura e l’entità di quegli aiuti debbano essere decisi dai cittadini in  un dibattito pubblico non autorizza ad accusare di egoismo popoli e governi per le diverse valutazioni di opportunità sui modi migliori per provvedere all’interesse collettivo.

Mentre ascoltavo le parole toccanti di Monsignor Bottoni pensavo al <mio> egoismo—al contributo Assefa che quest’anno non ho versato—non all’egoismo morale del governo che, in quanto <ente pubblico> va giudicato unicamente in base alla sua capacità di adempiere le sue funzioni istituzionali (capacità che, a mio avviso,lascia a desiderare).

In realtà, e qui forse trova una spiegazione  il suo apprezzamento del ‘diritto mite, anche il teologo milanese ritiene con i giuristi progressisti che siano   finiti i tempi della politica, ovvero dello ‘stato nazionale’, e che   una comunità politica libera e democratica debba fondarsi unicamente sul rispetto dei ‘diritti dell’uomo e del cittadino’ che non conoscono barriere etniche, religiose, culturali. E’ il <patriottismo costituzionale> alla Juergen Habermas che si sposa, riciclandolo a sinistra, con l’antimodernismo di Pio IX e di Leone XIII, segnato dal rigetto della ‘società borghese’ e dello spirito acquisitivo capitalista. Il Diritto, che da diversi anni, cerca di estromettere la politica dal mondo umano sembra aver trovato degli alleati inaspettati nelle Curie:se la laicità, soprattutto in campo bioetico, continua a dividerlo dalla Chiesa, la solidarietà con i <dannati della Terra> ne fa una preziosa alleata (ovviamente contro la ‘giungla del mercato’, l’individualismo possessivo etc.)

Sennonché, una volta ridotto lo Stato a garante dei diritti–non più tanto < i diritti ‘liberali’ alla proprietà e alla libera impresa> quanto< i ‘diritti sociali’, i ‘diritti dovuti’>–, si chiede ironicamente Pierre Manent in "In difesa della nazione. Riflessioni sulla democrazia in Europa" (Ed. Rubbettino), abbiamo ancora bisogno dello Stato? <Un’amministrazione regionale,o anche europea, o forse anche privata>–la cosiddetta <governance democratica>– non potrebbe assicurare molto meglio <i diritti umani dei suoi membri> ?

Ormai l’unico proposito  di tutti gli enti che ci governano, dal Municipio alle Nazioni Unite, sembra <quello di prevenire ogni azione individuale o collettiva, che non sia altro che la semplice applicazione di una norma>. E’ la fine della democrazia e della politica e il ritorno al <dispotismo illuminato, definizione precisa per la somma di agenzie, amministrazioni, corti di giustizia e commissioni che, nel disordine ma con unanime intenzione, ci istillano sempre più meticolosamente la norma>.

Le comunità storiche, però, non si lasciano svuotare di quella sostanza etno-culturale, che costituisce il terreno privilegiato del nazionalismo ma altresì l’indispensabile base materiale su cui poggiano le istituzioni e le forme di governo. Ci possono essere democrazia, liberalismo, conservatorismo, nazionalismo, comunismo solo all’interno dello stato nazionale giacché esso solo è in grado di fornire gli strumenti per la realizzazione di un qualsiasi progetto politico. In fondo, lo stesso federalismo di Carlo Cattaneo, lungi dall’essere la liquidazione dello ‘stato nazionale’, era fondato su una diversa definizione dell’etnia culturale: era un federalismo di piccoli e medi stati nazionali (Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana etc.), uniti da una lingua comune, decisi a creare istituzioni comuni per risolvere gli affari interni e internazionali che riguardavano tutti e caratterizzati—e qui stava il suo coté liberale—dalla drastica riduzione delle competenze dello Stato, sia nel suo assetto federale che in quello locale.<Ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha casa sua, le cognate non fanno liti>, scriveva attingendo alle metafore del parlar comune.

Solo un’anima bella’ può pensare che popoli tanto diversi, per cultura, lingua, religione, cultura possano convivere in uno stesso spazio giuridico purché stipulino un bel ‘contratto sociale’ che fissi sulla carta i <diritti> dei cittadini e i compiti dei governi (come vogliono i giuristi neo-universalisti) o aprano il cuore all’accoglienza generosa (come auspica Monsignor Bottoni).

<Una democrazia che <sa ormai vedere la virtù solo in ciò che è ‘generale’ o ‘universale’> e <una Europa che vorrebbe confondersi con il corpo in crescita di una umanità in generale> sembrano essere divenuti gli ideali sia dei cattolici progressisti sia degli eredi dell’89. Né gli uni, né gli altri si rendono conto che gli abiti dei diritti debbono venire indossati da corpi viventi–cresciuti, per così dire, nella storia,–e se di questi e della loro irriducibile individualità ci si vergogna, la marcia trionfale dell’umanità <sulla via della definitiva unificazione>è destinata ad arrestarsi con ricadute imprevedibili e sicuramente tragiche. Come scrive ancora Manent, forse oggi il teorico politico più lontano  dalla <political correctness> ,<l’umanesimo che pretenda di staccarsi del tutto da ogni responsabilità verso un popolo specifico o da una prospettiva chiara sul bene umano è vano e vuoto>. La diversità non è qualcosa che si possa sacrificare sull’altare degli ‘eguali diritti’ o di una improbabile federazione che cancelli gli odi ma anche le memorie del passato :l’accordo con gli altri —sia dettato dal ‘diritto mite’ o dall’omelia evangelica–  non può significare la rinuncia  alla propria personalità ovvero alla ‘politica’ intesa come la salvaguardia di una specificità irriducibile alla quale si attribuiscono un senso e un valore che non possono dedursi dalla Ragione o dal Cuore universale. D’altra parte è quella specificità che pianta sulla terra erbe e alberi umani, che li fa esistere concretamente e che, facendoli esistere, rende concreto il discorso sulla libertà o sulla servitù, sulla democrazia o sulla dittatura, sul garantismo o sull’arbitrio amministrativo. L’empireo dei diritti universali, se non conosce la politica, non conosce neppure gli uomini in carne ed ossa.

  Nella visione del mondo di Bottoni, non esistono problemi oggettivi di convivenza: tutta la complessità del sociale si trova appesa al chiodo della <buona volontà>. Resta da spiegare perché, facendo entrare ad libitum–senza alcuna preoccupazione delle ricadute sociali, politiche ed economiche–gruppi di religione e di civiltà diverse (non dico <di razza> giacché le <razze spirituali> non esistono e una società multirazziale, nel senso dell’antropologia fisica, potrebbe essere persino auspicabile) proprio noi italiani dovremmo mostrare al mondo la possibilità di gestire pacificamente una società multiculturale e riuscire  in un’impresa di cui Valloni e Fiamminghi, in Belgio, Scozzesi, Gallesi e Inglesi in Gran Bretagna, Baschi, Catalani e Castigliani—tutte etnie ‘cugine’se non sorelle—sono sempre meno disposti a farsi carico.