
Se la corda si spezza sull’Italicum

15 Settembre 2015
di Andrea Spiri
In queste ultime ore, a monopolizzare l’attenzione non è soltanto il dibattito attorno alla modifica dell’ormai famoso articolo 2 del disegno di legge Boschi sulla riforma del Senato. Si torna a parlare di legge elettorale e non è certo un caso che la questione Italicum finisca per intrecciarsi con quella della riorganizzazione del Senato, dal momento che proprio il tassello conclusivo del mosaico riformista è destinato a fornire concretezza alle nuove regole sul sistema di voto.
Per inquadrare l’argomento è utile riferirsi all’ultimo sondaggio EMG sulle intenzioni di voto ai partiti diffuso lunedì dal Tg La 7. Un dato balza subito agli occhi: dalla rilevazione emerge la sempre minore distanza che separa il Pd dai 5 Stelle. Alle Europee del 2014 lo scarto tra Renzi e Grillo era di ben 20 punti percentuali, mentre oggi l’ex comico genovese tallona minacciosamente il “rottamatore” fiorentino in debito di ossigeno (Pd 32,2%, M5S 26,4%).
Più distanziato, ma pur sempre in corsa per salire sul podio è Matteo Salvini, con la sua Lega accreditata del 15,2%. L’istituto di Masia offre poi una simulazione del ballottaggio previsto dall’Italicum sulla base dei numeri suddetti: il Partito democratico avrebbe gioco facile nello smontare le velleità governative dei “grillini”.
Anche la più recente analisi di Euromedia Research, commissionata da Ballarò, fotografa un’identica realtà, pur offrendo delle variazioni nel calcolo delle percentuali attribuite alle tre forze politiche (Pd 31,2%, M5S 25%, Lega Nord 16,4%).
L’insistenza su questi dati, lungi dal configurarsi nei termini di un esercizio astratto, è funzionale al ragionamento che intendiamo sviluppare, e che può essere sintetizzato dalla seguente domanda: in un sistema tripolare che va strutturandosi attorno alle leadership di Renzi, Grillo e Salvini, quale possibilità viene concessa ad uno spazio politico liberal-popolare di sopravvivere autonomamente e di salvaguardare i propri tratti identitari?
E ancora: quali margini di azione può avere un centrodestra dalla propensione lepenista, ancorato a posizioni anacronistiche e miopi su tutti i temi, dal futuro dell’Europa fino alle strategie per affrontare un fenomeno epocale come quello dei flussi migratori?
La risposta al secondo quesito è presto detta: nessuna. Le elezioni le vince chi è capace di allargarsi verso il centro, chi unisce, ed è evidente che la Lega non rappresenta il soggetto in grado di aggregare posizioni e sensibilità differenti, senza contare che parliamo di una realtà incapace anche di raccogliere e fare proprie le istanze provenienti dalle regioni del Sud, e questo nonostante i frenetici tentativi messi in atto dal suo leader per accreditarsi come figura dal respiro nazionale.
Lo schema Grillo/Salvini è quello che maggiormente solletica l’appetito di Matteo Renzi, ben consapevole del fatto che, a queste condizioni, tornare a Palazzo Chigi passando dalla porta principale è un gioco da ragazzi.
Ci sono poi Berlusconi e Forza Italia, che hanno gettato al vento la possibilità di lavorare alla costruzione di un centrodestra rinnovato e competitivo, confidando nel fatto che prevedere una legge elettorale con premio di maggioranza alla lista piuttosto che alla coalizione avrebbe significato poter fagocitare le forze politiche minori, costringendole a fare marcia indietro e ad abbandonare il percorso che avevano faticosamente imboccato.
Mai calcolo si rivelò più sbagliato, e la conseguenza di un disegno privo di fiato strategico è oggi sotto gli occhi di tutti: Berlusconi, una volta grande aggregatore e oggi gran disgregatore, è costretto a rincorrere Salvini pur di riuscire a scalzare Grillo dal ruolo di sparring partner renziano.
Quanto infine al presidente del Consiglio, non stupisce certo la sua ostentata sicurezza, un tratto tipico della sua immagine spavalda di uomo-che-non-deve-chiedere-mai. Colpisce di più, invece, la netta chiusura dei suoi fedelissimi dinanzi alla richiesta di rivedere il meccanismo di attribuzione (alla coalizione invece che alla lista) del premio di maggioranza nell’Italicum. Probabilmente non è passato, come avrebbe dovuto, il messaggio che questa battaglia sulla modifica della legge elettorale non attiene alle singole prospettive personali, e nemmeno solo alle prospettive di un partito, ma alla salvaguardia di uno spazio politico importante, quello dei moderati, quello rappresentato in Europa dai popolari. Proprio per questa ragione, chiama in causa i valori di identità, autonomia, indipendenza.
Renzi, lo abbiamo scritto anche di recente, è un giocatore, uno capace di puntare tutto in un’unica mano. Quel che occorre capire è se abbia davvero il punto per chiudere la partita o se il suo non sia piuttosto un bluff. Siamo proprio sicuri che le elezioni anticipate convengano al presidente del Consiglio? Lo scenario, neppure tanto immaginario, sarebbe questo: l’uomo che ha fatto del decisionismo la chiave del suo storytelling, vestirebbe i panni del leader incompiuto che non ha mantenuto le promesse e che non è riuscito a modernizzare l’architettura istituzionale dello Stato. E di fronte a un Pd sofferente e diviso, non apparirebbe più come il vincitore, l’uomo che ha riportato la sinistra al governo, ma l’ennesimo leader sconfitto, l’ultimo di una lunga lista.
Quale che sia la risposta a questo dilemma, un fatto non dovrebbe sfuggire all’attenzione del nostro presidente del Consiglio: evocare a ogni piè sospinto il ricorso anticipato alle urne come clava da suonare in testa al Parlamento può rivelarsi un boomerang. Non poche persone potrebbero essere tentate dall’andare a vedere le sue carte, non pochi parlamentari potrebbero convincersi a rischiare, giocandosi anche loro il tutto per tutto con il Consultellum.
Ecco spiegate le ragioni per cui occorre procedere con prudenza, partendo appunto dalla semplice constatazione che, se troppo tirata, la corda potrebbe d’improvviso spezzarsi, e la convenienza politica suggerire scelte diverse.