Se la Corte dei Conti boccia la laurea breve promuove la Gelmini?

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Se la Corte dei Conti boccia la laurea breve promuove la Gelmini?

20 Aprile 2010

L’università italiana costa troppo e vale poco. Non è una novità. Il ministro Gelmini – quello stesso che qualche giorno fa il professor Asor Rosa ha elegantemente definito su Rep. "Una povera indifesa e incapace prestanome del super ministro Tremonti" – lo dice da sempre. Ma oggi a confermare quanto e come si spendono i soldi per l’attività didattica e di ricerca nel nostro paese non è affatto un ministro della corte di Berlusconi, come direbbero i baroni della sinistra, ma niente meno che quella istituzione insospettabile che è la Corte dei conti.

Secondo un Referto sul sistema universitario appena pubblicato la laurea breve, percorso "specialistico" affiancato a quello della laurea tradizionale dalla riforma universitaria, è da bocciare senza mezze misure, poiché "non ha prodotto i risultati attesi" né in termini di aumento dei laureati né in termini di miglioramento della qualità dell’offerta formativa. In più, secondo quanto sostiene la magistratura contabile, la laurea breve ha generato un sistema incrementale di offerta "con un’eccessiva frammentazione e una moltiplicazione spesso non motivata dei corsi di studio". Che l’accademia italiana sia allo sbando e abbia bisogno di una razionalizzazione delle risorse e della qualità della didattica è un dato che anche i più irriducibili e miopi baroni universitari dovrebbero aver oramai chiaro. In questo senso va il tentativo di riforma avviato dal ministro dell’Istruzione. Magia o verità dei numeri, fatto sta che oggi anche i giudici danno ragione o retta alla Gelmini. Chissà se promuovendola a pieni voti…

Ma stavolta a legger bene il rapporto della Corte dei conti c’è dell’altro, poiché, forse per la prima volta, a salire sul banco degli imputati è proprio la laurea breve. Quel sistema strategicamente elaborato ai tempi del ministro Zecchino come la panacea di tutti i mali dell’accademia nostrana, che doveva risolvere l’annoso problema di conciliare una concezione universitaria di massa (il 3) ad una formazione, diciamo così, d’eccellenza (il +2) aprendo le porte del mercato del lavoro ad una nuova classe di giovanissimi dottori.

Forse – ma il dubbio in questo caso è d’obbligo – siamo arrivati al capolinea di una vecchia e politicizzata concezione della formazione, in cui si è scambiato il diritto allo studio, senz’altro da assicurare a tutti gli studenti, con il diritto alla laurea e dove un sistema di pletorica frammentazione dei percorsi di studio è servita solo a consentire una scellerata proliferazione delle cattedre e degli incarichi per "piazzare" il docente o il tecnico di turno con costi insostenibili sia in termini tremontiani sia in termini di qualità della formazione.

Se si uscisse definitivamente da una logica quantitativa – anche attraverso un’analisi dei costi, per carità – per adottarne una qualitativa potremmo dire che un piccolo passo avanti è stato fatto, senza pensare a soluzioni tanto estreme quanto utili come l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Un titolo che di valore ormai ne ha davvero proprio poco.