“Se l’America non esce dalla crisi Obama finirà impallinato”

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“Se l’America non esce dalla crisi Obama finirà impallinato”

29 Luglio 2009

La crisi interna è il punto nodale della presidenza Obama. Se la disoccupazione cala e il Pil riprende a crescere, l’amministrazione acquisterà maggiore libertà di movimento anche su altri terreni, come la politica estera. Di questo, e dei discorsi di Obama, parliamo con Mario Del Pero che insegna storia americana all’Università di Bologna.

Professore, come riassumerebbe i discorsi di Obama?

Il presidente ha messo da parte la “promozione della democrazia” di Bush tornando a un elemento più tradizionale dell’armamentario retorico liberal: la necessità di promuovere la modernizzazione, lo sviluppo, la crescita economica. Il discorso è diventato quello della “promozione della dignità”.

Nulla di sconvolgente

Il discorso kennediano era più o meno simile come matrice e impostazione. Ma a maggior ragione, se un discorso del genere – interrazziale, interreligioso, ecumenico – lo fa uno come Obama, che sta cercando di presentare se stesso e la sua biografia come quella potenziale del mondo, acquista più significato. Ed è una retorica che ha la sua forza.

L’impressione è che stia costruendo una “storia virtuale” degli Usa… come con la Russia

L’incontro con Medvedev è stato importante perché andava aggiornato lo Start. Obama vuole proseguire nel percorso di riduzione delle testate nucleari che dura da almeno 15 anni, anche con Bush. Se guardiamo agli arsenali complessivi delle due parti, sono stati fatti dei progressi rilevanti che non avremmo mai potuto immaginare all’inizio degli anni Novanta. Il viaggio a Mosca è stato anche un modo per lanciare un messaggio di collaborazione alla leadership “deputinizzata”.

Biden è stato in Ucraina e Georgia

Il vicepresidente è andato a rassicurare gli ucraini. Ma negli ultimi tempi avete sentito parlare di allargamento della Nato? Mi sembra che Obama abbia tirato il freno, anche se è un freno che verrà mantenuto o sbloccato a seconda di come si comporterà la Russia.

Al Cairo, Obama ha fatto un’equivalenza morale tra il colpo di stato in Iran del ’53 e la Rivoluzione khomeinista

Il colpo di stato in Iran del ’53 non fu proprio un gesto nobile degli Stati Uniti. In ogni modo fare autocritica è politicamente pagante – costa poco, ma paga.

Come con Noriega?

Lo fece più volte anche Clinton. E l’ha fatto anche Reagan, durante gli anni Ottanta. Conviene riconoscere gli errori del passato, per dare un’immagine di diversità. Al Cairo Obama aspirava a parlare alle opinioni pubbliche arabe e musulmane.

Esistono?

Non so se esistono, di certo ha parlato alle elite politiche musulmane, e queste esistono di sicuro. Quella di Obama è una battaglia per conquistare “i cuori e le menti” di queste elite, o quantomeno per garantirsi la loro lealtà e fedeltà. Dire che un nazionalista arabo come Mossadeq era dalla parte della ragione e l’America in torto è un messaggio che a quelle elite piace sicuramente.

Più di quello di Bush

In realtà anche Bush è stato molto attento a presentare la campagna contro il terrorismo post 11/9 come qualcosa di differente da uno scontro di civiltà. La prima cosa che ha fatto è andare all’ambasciata saudita e poi alla moschea di Washington. Anche in documenti ideologicamente ‘sovraccarichi’, come la National Security Strategy del 2002, si ribadiva con forza questo indirizzo.

Cos’è successo?

La controparte, o le controparti, l’hanno interpretato come uno scontro di civiltà, appunto, perché avevano interesse a farlo. Fa più comodo a Bin Laden che questo scontro ci sia.

Allora qual è la differenza tra i due presidenti nella lotta al terrorismo?

Direi che si tratta di un cambio di categorie. Bush fu molto esplicito nel dire che in assenza di libertà il malcontento politico viene canalizzato in forme radicali ed estreme. Invece Obama torna al discorso dello “sviluppo”: il radicalismo prospera su condizioni di arretratezza, di povertà, non solo di assenza di libertà. Andare a raccontare a Mubarak una storia diversa da questa diventa problematico.

Mubarak, l’Egitto, l’Africa. L’ultimo discorso, quello di Accra

Nel criticare le classi dirigenti africane Obama lancia due messaggi: a) non interverremo; b) la responsabilità di quanto avviene rimane vostra. Il Darfur è una tragedia ma è l’Africa che deve risolverla. Obama è astuto, cerca di sottrarsi alle questioni più spinose.

Che fine ha fatto Susan Rice?

La Rice aveva teorizzato l’intervento militare americano in Darfur. Ma un conto è farlo da studiosa ad Harvard, un conto stare alle Nazioni Unite.

Con gli Stati Uniti si finisce sempre per parlare del mondo. E la politica interna?

La crisi economica è il punto nodale. Se la disoccupazione cala e il Pil riprende a crescere, Obama acquisterà una maggiore libertà di manovra anche su altri terreni. Se no finirà impallinato.

Lo aspettano le forche caudine della riforma sanitaria

Può essere, ma tenga conto che l’inclinazione al compromesso è fisiologica al funzionamento del sistema politico statunitense. Per passare in Senato, la riforma sanitaria deve avere almeno 60 voti, quindi dei ponti bipartizan vanno costruiti. In ogni caso, su alcuni temi di politica interna, dai social issues alle "rinnovabili", il presidente tende a muoversi su una linea liberal che talvolta diventa radicale. Lo fa per formazione, per educazione, per convenienza, perché ci crede. Ma potrei essere smentito domani.