Se le banche snobbano il Governo

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Se le banche snobbano il Governo

12 Maggio 2009

Mentre nel resto del mondo le banche fanno a gara per accaparrarsi i soldi dello Stato, in Italia gli istituti di credito si permettono il lusso di snobbare gli aiuti messi a disposizione dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti.

I grandi banchieri dell’Europa e degli Usa si sono presentati davanti ai forzieri pubblici con il cappello in mano, storditi dai duri colpi della crisi finanziaria. Un passo obbligato, in molti casi, per evitare il fallimento. Le nostre banche, invece, dopo aver chiesto a gran voce l’intervento del governo a sostegno della loro base patrimoniale, oggi guardano con aria di sufficienza ai Tremonti-bond che rappresentano lo strumento principale messo a loro disposizione.

A marzo le prime cinque banche italiane avevano annunciato l’emissione complessiva di circa 10 miliardi di euro delle speciali obbligazioni che il Tesoro si è impegnato a sottoscrivere. A oggi solo due hanno formalizzato le richieste: Monte dei Paschi di Siena (1,9 miliardi) e Banco Popolare (1,45 miliardi). Restano ancora alla finestra Banca Popolare di Milano (500 milioni) e i due colossi del credito Intesa Sanpaolo e Unicredit che avevano ipotizzato un importo di 4 miliardi a testa. Cosa è successo in questi due mesi?

Verrebbe da pensare che questa mancanza di attenzione nei confronti degli aiuti pubblici sia dovuta semplicemente al fatto che le banche italiane si siano accorte di non averne bisogno. In effetti, anche secondo i dati della Banca d’Italia, sembra che gli istituti di credito nostrani siano riusciti a schivare l’epidemia dei titoli tossici e non corrano il rischio di imbattersi nella bolla immobiliare che ha travolto in primo luogo gli Stati Uniti. Ma gli effetti della crisi non sono ancora del tutto noti e le banche hanno comunque la necessità, anche a soli fini preventivi, di rafforzare il capitale di vigilanza (Core Tier1). Bisogna quindi andare più a fondo per mettere bene a fuoco la situazione.

In realtà le banche stanno facendo melina per cercare di spuntare condizioni migliori prima di accettare i finanziamenti statali. I Tremonti bond, infatti, hanno tassi elevati e soprattutto impongono una serie di vincoli. Gli istituti di credito che decidono di ricorrere a questi speciali strumenti di patrimonializzazione devono pagare una cedola annuale piuttosto cara, pari all’8,5 per cento per i primi quattro anni. Cedola che poi andrà a crescere gradualmente. A fronte del finanziamento, le banche dovranno assumersi impegni concreti: la sospensione del pagamento della rata di mutuo per almeno 12 mesi per i lavoratori in cassa integrazione o licenziati; la promozione di accordi per anticipare le risorse necessarie alle imprese per il pagamento della cassa integrazione; il contributo finanziario per rafforzare la dotazione del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese; l’aumento delle risorse da mettere a disposizione per il credito alle pmi.

I Tremonti-bond, quindi, hanno il duplice obiettivo di sostenere finanziariamente le banche e di evitare il blocco dei flussi creditizi verso l’economia reale. Con evidenti meccanismi di redistribuzione: lo Stato finanzia gli istituti in difficoltà che a loro volta devono andare in soccorso di cittadini e imprese. Proprio questi obblighi nei confronti della clientela stanno rallentando le operazioni. Le banche non vogliono aver le mani legate. Intesa Sanpaolo, per esempio, ancora in questi giorni sta negoziando con il Tesoro i dettagli. Unicredit, invece, sta valutando la convenienza  di altri canali di finanziamento, inclusa la possibilità di ricorrere agli aiuti messi a disposizione dal governo austriaco. Intanto le piccole e medie imprese e le famiglie guardano con incertezza al futuro. Ad esempio, finché la banca non emette i Tremonti bond, chi va in cassa integrazione o viene licenziato non può beneficiare della sospensione della rata del mutuo.

In questo modo, però, non si aiuta il Paese a ripartire: i banchieri fanno il loro mestiere se cercano i capitali a costi minori, ma non possono rinunciare a dare il loro contributo per superare la crisi. Nel momento di massima allerta lo Stato non ha esitato a mettere a loro disposizione i soldi dei contribuenti. Ora che le banche possono trovare canali di finanziamento alternativi, con i tassi d’interesse ai minimi storici, devono ridistribuire i vantaggi alla clientela e non pensare solo al loro tornaconto.