Se le nostre banche reggono è grazie a un sistema tradizionale ma solido

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Se le nostre banche reggono è grazie a un sistema tradizionale ma solido

05 Ottobre 2008

L’ondata ribassista che sta attraversando il settore bancario italiano, e che ha portato anche Presidente del Consiglio a lasciare preventivamente trapelare una disponibilità a considerare opzioni di intervento pubblico di sostegno al settore sembra incrinare il quadro di certezze su cui, per mesi, abbiamo costruito l’idea di una “diversità” positiva delle banche italiane rispetto a quelle europee e, più ancora, statunitensi. 

In realtà, taluni fattori di debolezza preesistevano a queste convulse giornate, e molti punti di forza continuano a distinguere la maggioranza dei nostri istituti. 

Partiamo dai fattori di debolezza. Il primo, decisivo, è una certa fragilità degli assetti proprietari: quando dovesse emergere un’esigenza di ripianare perdite attraverso aumenti di capitale (le nostre banche hanno una patrimonializzazione media adeguata e ben vigilata, ma talune reggerebbero a fatica svalutazioni straordinarie senza ricorrere a mezzi freschi), gli “azionisti di controllo” . potrebbero trovarsi in difficoltà a sottoscriverli, e potrebbero quindi indurre a politiche più azzardate, o comunque meno orientate al rilancio, per evitare di farsi diluire. Il caso tipico è quello delle fondazioni, che hanno negli ultimi anni ricaricato di azioni della propria banca di riferimento i propri stati patrimoniali, legando a filo ancor più doppio la propria salute con quella della propria controllata. 

Il secondo è l’esposizione “antiselettiva” al rischio di controparte. Sono frequenti i casi di istituti (piccole, solide casse di risparmio locali, per esempio) che, per tradizionale prudenza nell’erogare il credito anche nei momenti di maggiore euforia, hanno investito il denaro raccolto presso la clientela in titoli che si pensavano “sicuri” (tipicamente, di grandi banche d’affari americane), a qualcuno dei quali era magari combinato un derivato. In molti casi il valore di questi titoli è crollato, e genera oggi minusvalenze implicite proprio nei conti delle banche che avevano scelto la strada della maggiore cautela banche. 

La terza è l’esposizione sull’immobiliare. Chiunque conosca un poco il mercato vero del credito degli ultimi cinque anni sa che la sua crescita si deve, anche in Italia, quasi esclusivamente a questo comparto. Intendiamoci, nel nostro Paese il rischio non assume la fisionomia del mutuo subprime (che pure esiste, ma è sostanzialmente limitato a nicchie ben conosciute agli addetti ai lavori): la controparte rischiosa non è retail (la famiglia che ha comprato una casa che non si poteva permettere), ma corporate: il costruttore che ha chiesto credito per realizzare complessi residenziali che difficilmente potranno essere oggi venduti con i ricavi previsti. Una certa tensione su questo tipo di controparte sembra avvertirsi, e la forma tecnica che si è diffusa per finanziarla (il mutuo a stato avanzamento lavori) non fornisce alla banca una garanzia reale troppo solida in una fase recessiva dei corsi immobiliari. 

I punti di forza. In primo luogo, l’industria bancaria italiana è complessivamente efficiente: ha processi moderni e sempre meno costosi (il rapporto tra costi e ricavi si è abbattuto, in poco più di dieci anni, dal 75% al 55%.) Ha una percentuale di dipendenti laureati sul totale e di procedure completamente informatizzate che non ha eguali in alcun settore “di massa”. I processi del credito sono di ottima qualità sostanziale rispetto ai comparable europei e americani. Come molti hanno notato, ciò deve attribuirsi anche all’eccellente, tradizionale contributo di vigilanza della Banca d’Italia.

In secondo luogo, la “domanda” di banca (risparmio, credito, servizi di pagamento etc.) è abbastanza tradizionale, e quindi piuttosto anelastica, cioè non varia a seconda della congiuntura in maniera tale da squilibrare completamente i profili di costo e ricavo degli istituti; nonostante il venticello di critica (spesso di calunnia) che qualche cliente gabbato e tanti agit-prop di professione alimentano, la banca ha peraltro un rapporto forte con la propria clientela, un rapporto basato sulla prossimità fisica e relazionale (il 70% dei clienti bancari, in una recente rilevazione demoscopica, ha dichiarato di aver scelto la propria banca per ragioni di prossimità fisica dello sportello). 

In terzo luogo, la banca in Italia opera in un “ambiente finanziario” più ricco che altrove di ammortizzatori interni, di contrappesi. E’ l’universo dei consorzi fidi, delle casse di categoria, dei contributi pubblici, dei fondi di garanzia e di rotazione, delle finanziarie regionali, che agiscono da mitigatori del rischio, da garanti, da fideiussori sostanziali o morali. Ha numeri imponenti: 600 consorzi fidi, 50 finanziarie e società di garanzia pubbliche, numerosi fondi di garanzia settoriali, una miriade di piccoli e piccolissimi strumenti di sostegno di comparto, di territorio, di ceto. E’ una sorta di Piano Paulson di tutti i giorni, carsico e non sempre trasparente nei suoi costi per il cittadino, ma ben collaudato, complessivamente funzionante. 

In una certa fase storica, questo “tesoretto” è stato inquadrato esclusivamente nella sua prospettiva deteriore: la vischiosità delle decisioni, l’influenza della politica e delle corporazioni nell’economia, una propensione alla conservazione più che all’innovazione, l’operare in una zona grigia tra stato, mercato, terzo settore. 

Oggi dobbiamo ricordarci della sua esistenza sapere di poterci contare.