Se l’Egitto vuole un futuro democratico, è ora che gli egiziani si dicano la verità

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Se l’Egitto vuole un futuro democratico, è ora che gli egiziani si dicano la verità

11 Febbraio 2011

Quando appartenevo all’islam, ricordo che pregavo sola, in pedissequa ripetizione: mettevo in pratica le mie abluzioni, mi coprivo con il velo, stendevo il mio tappetino, faccia alla Mecca, e iniziavo con la serie obbligatoria di inchini e prostrazioni. I miei pensieri immediatamente vagavano nel nulla ma era obbligatorio pregare senno i guardiani della preghiera nella mia famiglia avrebbero notato la mia negligenza. Ho continuato a pregare a lungo.

L’esperienza diveniva ben diversa, comunque, quando la preghiera aveva luogo nella moschea. Lì stavo spalla a spalla con altre donne; tutte velate su un’enorme moquette; sotto stavano gli uomini, ammassati in spazi anche più grandi; guardavamo alla Mecca e ripetevamo i movimenti della sottomissione. In quel contesto sentivo un senso di animazione. Alla fine della recita tutte cantavamo – aaaaammmmeeeennn!!!. Ricordo che il mio cuore cominciava a battere forte. Ero nella folla del credente. Ne sentivo il potere.

Guardando le immagini delle masse del Cairo, riesco a rivivere il forte senso di unità che quell’esperienza ti dà. Credo che molti telespettatori occidentali possano aver simpatizzato con le migliaia di persone che hanno conquistato la strada e le piazze – non solo in Egitto, ma in Tunisia, Giordania, Yemen e altrove – per richiedere la fine dell’autoritarismo. Innumerevoli commentatori hanno anche voluto tracciare delle analogie con le rivoluzioni democratiche che scoppiarono nell’Europa dell’Est nel 1989.

Con tutto il rispetto, questo vuol dire non capire la differenza tra la piazza occidentale e quella musulmana. Le persone che hanno conquistato le strade nel Nord Africa e nel Medio Oriente hanno molte motivazioni. In primis, niente li unisce di più della preghiera di massa nella loro religione, in particolare la preghiera del venerdì. Tanto la ‘strada’, quanto la moschea sono le chiavi per capire il movimento di sollevazione. Praticamente tutte le religioni fanno affidamento sulla coesione delle masse, ma questo è più vero per l’islam che in altre religioni.

Nel periodo post-decolonizzazione nessuno tra i despoti del mondo musulmano ha mai osato opporsi apertamente alla folla dei credenti. In Egitto hanno purgato la Fratellanza musulmana, ucciso e imprigionati i loro leader, condannandoli come deviati dalla vera fede. Ma la moschea è sacrosanta. E’ per questo che per molto tempo, la moschea è stato l’unico luogo di associazione delle masse arabe. Questa è la ragione che spiega perché la più efficiente forza politica nel mondo arabo sia l’islamismo. Coloro che sperano in un risultato in stile 1989 – una transizione pacifica verso una democrazia laica e multipartitica – dovrebbero ricordarsi quanto poco esperti siano i promotori di una democrazia laica.

La Fratellanza Musulmana sta nella società dal 1928, e si rifà a una tradizione di sottomissione che dura da 1400 anni. Il problema dell’islam politico è in qualche modo stato identificato da Elias Canetti nel suo classico Crowds and Power: “I credenti agognano la forza di Dio; il Suo potere da solo non li soddisfa; è troppo distante e li lascia troppo liberi. Lo stato di eterna attesa del comando, al quale, all’alba della vita, si arrendono per sempre, li segna profondamente oltre ad esercitare un grande impatto sull’atteggiamento che sviluppano nei confronti dei loro simili.”

I Mubarak e i Gheddafi non sono un’anomalia; sono invece il prodotto di una mancanza strutturale di libertà insita nella cultura della moltitudine del mondo islamico. In questa cultura, la sottomissione è parte del tutto. Se non ti è concesso rispondere a tuo padre, al tuo insegnante, o al tuo precettore religioso, la sottomissione allo stato di tirannia diventa la tua seconda natura. In questa cornice, i metodi di acquisizione del potere individuale – o addirittura di sopravvivenza tout court – diventano la cospirazione, la manipolazione, l’intrigo e la corruzione.

Coloro che ambiscono a posizioni di potere temono che condividere il potere possa indebolirli o addirittura condurli all’umiliazione. Per questo, quando una posizione è raggiunta, essa è resa permanente, dall’ultimo dei burocrati fino al presidente. Una cultura che eleva la sottomissione individuale a norma, insomma, e che oscilla tra periodi di apatia e sussulti occasionali di rivolta. Come abbiamo visto i leader arabi governano per tutta la vita, oppure crescono i loro figli per la successione e a volte finiscono col dover scappare.

Chiediamoci allora cosa possano fare oggi quelle folle di musulmani per evitare il destino di tutti quei topi che credono di battersi per la libertà mentre di fatto son solo oggetto di gioco tra le grinfie del gatto? I manifestanti devono incominciare a riconoscere i fattori che creano un ambiente nel quale i tiranni prosperano. Per troppo a lungo, forze esterne hanno funto da capri espiatori della piazza araba. E’ facile biasimare i sionisti e l’America. E’ più difficile però riconoscere i propri difetti. E ancora: le folle di questi giorni avrebbero bisogno di articolare quello che vogliono.

Un dimostrante egiziano è stato intervistati dalla BBC e posto innanzi a una domanda sulla mancanza di leadership alla manifestazione a cui stava partecipando (quelle del 4 Febbraio). La sua risposta: “Non abbiamo bisogno di un leader”, lasciando di stucco l’intervistatore e con lui, senza dubbio, tutti i telespettatori occidentali che lo seguivano.   L’avversione di quel manifestante per la leadership è comprensibile anche alla luce dei cambiamenti nei regime arabi nel recente passato. In quella parte del mondo, infatti, uomini che sono emersi come liberatori si sono trasformati molto in fretta in dittatori fino a quando un altro uomo non è riuscito a mobilitare le masse per liberare la nazione dal loro ex-liberatore.

Il nuovo uomo, a sua volta, ricostruisce la vecchia infrastruttura di spie e camere di tortura. Ma è realistico parlare di rivoluzione in assenza di leader? Dal mio punto di vista non è possibile farlo. In assenza di leadership – il che vuol dire non un uomo soltanto ma una legittima struttura di comando, magari dotata anche di una qualche forma di manifesto esplicito – queste proteste non raggiungeranno mai i veri cambiamenti rivoluzionari ai quali abbiamo assistito in Europa nel 1989. Al loro posto vedremmo il caos e l’instabilità, seguiti da una nuova era di autoritarismo; una breve democrazia seguita da un colpo di stato o una governo della sharia condotto dalla Fratellanza.

E’ per questo che la folla deve trasformarsi in un movimento. Devono costruire delle istituzioni civili. Devo affrettarsi e stilare una lista di richieste prima che i manifestanti stessi vengano dispersi. Non è abbastanza chiedere al despota di lasciare il campo libero. C’è bisogno di emendamenti alle costituzioni esistenti oppure di qualcuno che ne scriva di nuove. E’ qui che l’America e l’Europa possono offrire aiuto. Ma quando si tratta di cambiare la cultura della sottomissione, nessuno può aiutare gli arabi se non loro stessi. Non è il loro destino inesorabile l’essere governati o da dittatori o fanatici religiosi. Gli arabi conquisteranno la vera libertà solo quando si emanciperanno da quella peculiare struttura di potere imposta  – da sé stessa – alla folla musulmana.

Ayaan Hirsi Ali è membro dell’American Enterprise Institute e fondatrice della Fondazione AHA la quale è impegnata nella difesa dei diritti delle donne musulmane. Tra i suoi libri “Nomade” e “Infedele”.  

(Tratto dal Financial Times©) 

Traduzione di Edoardo Ferrazzani