
Se l’Europa per ritrovare se stessa deve guardare ad Est

07 Giugno 2019
Periodicamente nell’Europa occidentale torna a essere udita una vecchia locuzione latina: ex Oriente lux. Questa espressione, “dall’Oriente la luce”, la cui attestazione più antica giunta a noi risale a una sentenza medievale, viene pronunciata per sostenere che dall’Est arrivi appunto una luce, ossia qualcosa in grado di guidarci nei periodi storici di confusione e smarrimento.
Il 28 luglio 2013, durante il viaggio di ritorno da Rio de Janeiro, città nella quale si è svolta la XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, Papa Francesco ha invero confermato questa consuetudine. Rispondendo a una domanda sui festeggiamenti dei fedeli ortodossi per i loro 1.025 anni di cristianesimo, il Pontefice ha dichiarato: «Nelle Chiese ortodosse, hanno conservato quella pristina liturgia, tanto bella. Noi abbiamo perso un po’ il senso dell’adorazione. Loro lo conservano, loro lodano Dio, loro adorano Dio, cantano, il tempo non conta. Il centro è Dio, e questa è una ricchezza che vorrei dire in questa occasione in cui Lei mi fa questa domanda. Una volta, parlando della Chiesa occidentale, dell’Europa occidentale, soprattutto la Chiesa più cresciuta, mi hanno detto questa frase: “Lux ex oriente, ex occidente luxus”. Il consumismo, il benessere, ci hanno fatto tanto male. Invece voi conservate questa bellezza di Dio al centro, la referenza. Quando si legge Dostoevskij — io credo che per tutti noi deve essere un autore da leggere e rileggere, perché ha una saggezza —si percepisce qual è l’anima russa, l’anima orientale. È una cosa che ci farà tanto bene. Abbiamo bisogno di questo rinnovamento, di questa aria fresca dell’Oriente, di questa luce dell’Oriente. Giovanni Paolo II lo aveva scritto nella sua Lettera. Ma tante volte il luxus dell’Occidente ci fa perdere l’orizzonte. Non so, mi viene questo di dire. Grazie».
Quello toccato da Papa Francesco è un argomento rilevante, vista l’importanza della liturgia nel mondo cristiano, ma soltanto una delle tante differenze esistenti tra le due Europe, poiché, in realtà, la parte occidentale e quella orientale del Vecchio Continente sono molto più lontane di quanto si possa credere. E i popoli che rappresentano hanno un rapporto con la religione e il senso di appartenenza che differiscono notevolmente. Per dirla con le parole della sociologa Grace Davie, nell’Europa occidentale è preponderante «il senso religioso senza il senso di appartenenza», ossia si crede, però non si sente il bisogno di partecipare comunitariamente alla vita religiosa; mentre in quella centrale e orientale prevale la visione di una religione che non può essere scissa dall’appartenenza nazionale.
A sostegno di questa tesi, nel 2017 il Pew Research Centre, un think-tank statunitense, ha pubblicato una ricerca sul rapporto tra identità e religione nell’Europa centro-orientale. Innanzi tutto, emerge che la maggioranza dei cittadini di questi Paesi si professa credente. I fedeli ortodossi arrivano a essere il 92 per cento dei moldavi e il 90 per cento dei greci; cattolici, invece, sono l’87 per cento dei polacchi, l’84 per cento dei croati, il 75 per cento dei lituani e il 56 per cento degli ungheresi. Il dato sorprendente è tuttavia quello sulla Russia. Nel 1991, anno del crollo dell’Unione Sovietica, si professava cristiano-ortodosso il 37 per cento dei russi. Oggi invece il 71 per cento.
Religione e identità, inoltre, in queste nazioni non soltanto si intersecano, ma la prima diventa persino un requisito essenziale per far parte della comunità nazionale: si ritiene che credere nella confessione maggioritaria sia fondamentale per essere un vero cittadino. Questo accade anche in Stati che si differenziano per la confessione cristiana prevalente. Infatti, la maggioranza della popolazione in Polonia e in Russia sostiene che essere cattolico od ortodosso è importante per potersi dichiarare «veramente polacco» o «veramente russo». Anche il 76 per cento dei greci ritiene che appartenere alla Chiesa ortodossa è importante per essere «veramente greco». Nonostante le differenze tra il cattolicesimo e l’ortodossia, e le conseguenti diversità tra le varie chiese orientali, come quella guidata da Mosca e quella capeggiata da Atene, far parte della Chiesa è indispensabile per poter essere considerati dei legittimi membri della società.
Ripercussioni politiche
Proprio per quel che riguarda Mosca, emerge un dato che ha dei chiari risvolti politici: la frase «una Russia forte è necessaria per equilibrare l’Occidente» è accettata dall’80 per cento dei serbi, dal 70 per cento dei greci e dal 56 per cento dei bulgari. Ovviamente, per quel che riguarda la nazione ellenica e quella bulgara, questa russofilia può creare dei problemi: essendo membri della Nato e dell’Unione Europea, i governi di Atene e di Sofia devono saper bilanciare una politica che sappia coniugare l’appartenenza al Patto Atlantico con rappresentare una popolazione che guarda con favore al Cremlino.
Dissensi e contrasti, invece, già sono presenti da tempo tra le istituzioni di Bruxelles e due Paesi membri dell’Unione Europea: Ungheria e Polonia. Budapest ha ormai da diversi anni Viktor Orbán primo ministro — la prima esperienza di governo durò dal 1998 al 2002, ma dal 2010 il leader conservatore si trova a governare ininterrottamente sino ad oggi — che ha dato una decisa svolta al Paese. Fra tutti, due sono i cambiamenti di maggior rilievo portati avanti dal presidente di Fidesz: la nuova costituzione e la politica migratoria. Per quel che riguarda la nuova carta costituzionale, entrata in vigore dal 1º gennaio 2012, essa mette in risalto la centralità della famiglia, dell’etica e della religione cattolica. Secondo molti, però, c’è anche l’intento di magiarizzare il Paese, a discapito delle minoranze etniche e con il fine di creare una classe borghese autoctona, spodestando così gli eredi del partito comunista (presenza ancora importante nel Paese). È tuttavia nella difesa dei confini che la politica di Orbán ha subito le critiche più dure da parte di Bruxelles e di organizzazioni non governative. A partire dal 2015 è stata eretta una barriera di filo spinato e lame lunga circa 175 chilometri sul confine serbo-ungherese, in quanto il governo di Budapest sostiene che il suo Paese stava subendo una vera e propria invasione di immigrati che entravano dalla Serbia. Orbán ha inoltre affermato di voler estendere la barriera anche lungo il confine con la Croazia, poiché dalla frontiera con quest’ultimo Stato giungono oggi le ondate migratorie in Ungheria. E uno dei primi provvedimenti dell’ultimo esecutivo Orbán, in carica dal 2018, è stato l’avvio della cosiddetta legge Stop Soros (dal nome del filantropo e finanziere ungherese). Il controverso provvedimento impone una tassa del 25 per cento su tutte le donazioni straniere a Ong che operano nell’accoglienza agli immigrati, proprio come la Open Society di Soros. Il governo ungherese ha più volte lanciato accuse durissime nei confronti del magnate, accusandolo di favorire un’immigrazione islamica incontrollata. Simili accuse il premier le ha riservate all’Occidente dichiarando che «ha spianato la strada per la fine della cultura cristiana» facilitando in questo modo l’islamizzazione dell’Europa. Il rifiuto netto a immigrati musulmani è anche ciò che guida le politiche dell’esecutivo polacco sull’accoglienza. Il Paese a maggioranza cattolica ha da diverso tempo un chiaro intento, ossia favorire l’arrivo di migranti economici da Stati a maggioranza cristiana. Varsavia infatti consente una serie di agevolazioni ai lavoratori provenienti da Armenia, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Russia e Ucraina, per via di “affinità culturali”.
I lavoratori di queste sei nazionalità ottengono la residenza permanente dopo due anni e mezzo trascorsi in Polonia e si consente loro, in più, il ricongiungimento familiare dopo un anno e mezzo. Nella legge, approvata definitivamente nel 2018, si legge: «L’obiettivo di questi cambiamenti è rendere più semplice stabilirsi in Polonia per i cittadini di sei nazioni culturalmente simili e che hanno qualifiche professionali per lavori richiesti dall’economia polacca».
La Polonia, terra storicamente cattolica, ha visto negli ultimi anni un incremento notevole di preghiere collettive e partecipazione alle funzioni liturgiche. Famoso è stato il rosario recitato il 7 ottobre 2017 da circa un milione di persone lungo i confini del Paese. La preghiera mariana era per la pace nel mondo e perché la Polonia e l’Europa riscoprano le proprie radici cristiane e non cedano alla secolarizzazione. Tuttavia, l’evento che ha sancito un nuovo cammino in Polonia — unendo clero, istituzioni e cittadini — è avvenuto il 19 novembre 2016, quando nella chiesa della Divina Misericordia a Cracovia i vescovi polacchi, alla presenza del presidente della Repubblica Andrzej Duda, hanno riconosciuto Gesù Cristo come “Re della Polonia”.
Questo risveglio identitario che sta vivendo l’Europa centro-orientale ha sicuramente elementi positivi e mostra come il comunismo prima e il processo di secolarizzazione dopo non abbiano affatto sradicato la fede da quei popoli. Vi sono diversi aspetti di questo ravvivamento identitario nell’Oriente europeo, tuttavia, che presentano non pochi dubbi. Tornando alla ricerca del Pew Research Center, alla domanda «il nostro popolo non è perfetto, ma la nostra cultura è superiore agli altri», hanno risposto positivamente i cittadini di otto Paesi: Armenia, Bosnia, Bulgaria, Georgia, Grecia, Romania, Russia e Serbia.
È lecito chiedersi: ex Oriente lux?