Se l’Europa si risveglia populista il centrodestra dovrà farci i conti
07 Novembre 2013
In un editoriale sul Corriere del 3 novembre sui “mali italici” Galli della Loggia fa un lungo elenco dei danni provocati dal Pci durante la Prima e la Seconda repubblica, quando il partito comunista è l’unico rimasto in piedi dopo Tangentopoli ed è diventato l’interlocutore naturale degli ambienti finanziari, economici, burocratici, delle magistrature dello Stato. L’unico che ha guadagnato in questi ultimi vent’anni.
Dopo un’analisi spietata dei danni commessi in settant’anni dal Pci ora Pd, Galli della Loggia invita gli intellettuali del Pd, soprattutto gli storici, a liberarsi dalla base giacobina ossessivamente antiberlusconiana e ad ammettere pubblicamente le proprie colpe, ad autodenunciarsi per i danni compiuti in tutti questi decenni.
In un clima di sfaldamento del Pdl, il Pd – suggerisce Galli della Loggia – potrebbe cambiare elettorato in corsa, conquistare l’egemonia politica e culturale per un altro secolo e decidere il futuro politico dell’Italia. Tra le righe, il leader invocato da Galli della Loggia è una sorta di "Renzi-Mussolini", un leader di sinistra votato dal centrodestra, che fa la rivoluzione liberale del centrodestra.
Galli della Loggia non vuole ovviamente la dittatura, né il fascismo, ma ripetere l’esperimento Mussolini significa ripetere gli errori commessi nel 1922, perché ci troveremo una sinistra ancora più radicalizzata, come accadde con Mussolini, con i comunisti emigrati all’estero. Non è detto che questo esperimento abbia successo, perché Renzi sogna gli Stati Uniti d’Europa nel momento di massimo euroscetticismo in tutti gli Stati europei e con Monti ministro e Scelta civica alleata. La tragedia, come si dice, si ripete in farsa.
Gli intellettuali del Pd, anche i bravi storici citati da Galli della Loggia, non possono fare l’autocritica che Galli della Loggia desidera, perché nessuno si evira. L’egemonia culturale della sinistra è il grande problema italiano ed è singolare che uno storico che ama pensare la politica non se ne accorga. Il Pci è stato davvero ed è una specie di principe machiavelliano, che però non ha unificato l’Italia usando la forza e la frode, ma si è limitato a usarle per fare il principe, confidando in uno status quo eterno del pianeta.
Neppure la fine del comunismo l’ha scalfito, perché c’è stata Tangentopoli, e da qui è venuta la convinzione dell’invulnerabilità, di potere avere sempre la disponibilità di elargire sussidi a chiunque protesti, favori a tutte le sue categorie professionali collocate nello Stato e fuori, di potere cavalcare con spregiudicatezza qualsiasi problema – dall’immigrazione ai gay – per ampliare il bacino elettorale e fare nuovi affari con nuove lobbies.
Poi è arrivata la crisi, una crisi che era scritta, come ricorda sempre il buon Sartori, nelle scelte fondamentali del sistema economico italiano all’indomani della fine del conflitto mondiale. Il declino italiano è tragico, perché vi sono delle scelte inequivocabili da fare e pensare di uscire dalla crisi soltanto con le tasse, significa condannare a morte il paese, comprese le categorie protette dal Pd. Questo il Pd non lo capisce e non può capirlo, perché non può autosuicidarsi, e lo vediamo anche con l’attuale governo di larghe intese, dove il Pdl deve opporsi continuamente a nuove tasse.
Il centrodestra è in una condizione difficile, perché, è vero, se i “diversamente berlusconiani” lasciassero il governo potrebbe essere fatta una legge elettorale che favorisce il centrosinistra, le procure si scatenerebbero contro Berlusconi e contro deputati, senatori, governatori e sindaci del Pdl, ma è anche vero che restando nell’esecutivo il centrodestra e il Paese sono in una strada impervia.
Insieme al crescente malcontento dell’elettorato di centrodestra, maggiormente colpito dalle tasse, aumenta l’insofferenza di larghi strati della popolazione, ai limiti della sopravvivenza. Senza misure radicali l’Italia non ripartirà e questo governo non può farle, perché Pd e Pdl sono due forze politiche alternative, con una visione diversa dell’Italia. Si può anche dare del “populista” e del “troglodita” a chi non accetta la logica delle vecchie élite, ma – come ha scritto Panebianco di recente sul Corriere della Sera – si prevede un grande successo dei partiti populisti alle prossime elezioni europee e si dovrà prenderne atto.
In situazioni di grande crisi economica e politica, se le vecchie élite non si adeguano e non prendono provvidenti, vengono di solito decapitate. Un successo populista all’europarlamento non significherebbe la fine dell’Ue, ma una ridefinizione dell’Ue, nella quale l’Italia si troverà a dover svolgere un ruolo da protagonista per il suo ruolo geopolitico nel Mediterraneo e ponendo anche il problema di un partenariato con la Russia, che collega l’Europa all’Asia.
Basta leggere i commenti dei lettori del laburista ed europeista Guardian all’intervista data da Letta per rendersi conto dell’insoddisfazione nei confronti della Ue come la conosciamo oggi. El Pais, giornale socialista, europeista, insieme all’intervista a Letta ha pubblicato un articolo simile a quello di Panebianco sul Corriere in cui invita a non criminalizzare i populisti. Forse dovremmo ricordare che un tempo invece del termine “populista”, la sinistra usava quello di “qualunquisti”, contro chi non accettava la sua politica e che molti “qualunquisti” hanno poi votato Forza Italia e Pdl.
Occorre rendersi conto che nel programma di Grillo vi sono molti punti in comune con il programma del centrodestra e che il Movimento Cinque Stelle è stato votato da molti elettori che avevano votato prima centrodestra e Lega. Soprattutto, va tenuto conto che molti delusi dall’attuale crisi del Pdl, temendo un’involuzione neocentrista andranno ad ampliare il bacino elettorale di Grillo, non quello di Renzi, che potrebbe rivelarsi un flop come Monti.
Il Renzi un giorno compagno, un giorno liberista che vuole eliminare i sindacati, rischia di non essere votato neppure dagli elettori storici dell’ex Pci e di apparire a quelli di centrodestra come un furbetto che approfitta di Berlusconi ai ceppi. Il carisma di Berlusconi non è fondato sulle tv o su masse troglodite: l’ha spiegato Giovanni Orsina in un libro che se fosse stato pubblicato nel 1994 o nel 2001 non avrebbe avuto certo la recensione benevola sul Corriere di Michele Salvati, uno dei padri del Pd. Il libro di Orsina è stato incensato da Salvati, perché il Pd non ha vinto le elezioni politiche del 2013 neppure con l’avversario principale azzoppato, e perché, con Berlusconi pregiudicato e interdetto, la sinistra potrebbe riconfigurarsi berlusconiana e cambiare elettorato in corsa. Un disegno spregiudicato e machiavellico.
Renzi piace agli intellettuali ex fascisti di sinistra, ai "corporativisti impazienti", come li chiamava Gentile, a qualche democristiano che non ha mai digerito Berlusconi, a quegli intellettuali transfughi dal Pci, scopertisi liberali dopo la fine del comunismo. Il carisma di Berlusconi si basa senz’altro, come dice Orsina, su quegli italiani scettici – la maggioranza – insofferenti verso uno Stato che li tassa per alimentare corporazioni opprimenti, ma anche sull’anticomunismo. Qui bisogna intenderci: i berlusconiani erano e sono galvanizzati dall’anticomunismo di Berlusconi, non solo perché non volevano diventare uno Stato dell’Est, ma perché hanno sempre considerato i comunisti coloro che con la frode e la forza hanno affossato l’Italia, ignorando l’interesse nazionale.
Ha ragione Quagliariello a dire che la prima grande rivoluzione liberale di Berlusconi è stata l’introduzione del bipolarismo in Italia e di avere tentato, aggiungerei, di formare un grande partito di centrodestra unendo forze diverse come Forza Italia, An e la Lega. Un progetto ostacolato dai nostalgici della proporzionale e del neocentrismo, che aveva estremo bisogno di intellettuali che favorissero l’omogeneizzazione delle diverse forze. Purtroppo, nonostante varie iniziative culturali, gli intellettuali del centrodestra, minoritari nell’università e di fatto neppure presi in considerazione dai grandi giornali italiani, per sopravvivere hanno sempre indossato la maschera dell’antiberlusconismo. Soprattutto hanno creduto in una strategia suicida: tentare di farsi legittimare dalla sinistra.
In fondo, è l’obiettivo di Galli della Loggia, quando chiede agli intellettuali di sinistra di denunciare i danni fatti all’Italia nella prima repubblica e nella seconda. Galli della Loggia non è mai stato berlusconiano, anzi ha sempre ridicolizzato Forza Italia come il partito di plastica, privo di cultura, appannaggio soltanto della sinistra, capace di offrire sempre nuove narrazioni della storia italiana, di riconfigurarsi e rimanere egemone.
Pur avendo scritto un libro molto amato dagli intellettuali di centrodestra, La morte della Patria, e avendo dichiarato pubblicamente di non votare più per la sinistra, Galli della Loggia è rimasto sostanzialmente un intellettuale deluso della sinistra, ma continua a vedere in essa l’unica forza capace di cultura e politica, tanto da arrivare a chiederle di fare autocritica per poter prendersi con un leader come Renzi gli elettori del centrodestra in crisi. Quest’operazione comporterebbe il suicidio del centrodestra e sancirebbe la sua scomparsa, insieme al bipolarismo.
Occorre essere realisti: la sinistra italiana, per la sua storia, non può legittimare il centrodestra, perché si suiciderebbe. La concentrazione di fuoco giudiziario e mediatico su Berlusconi in questi vent’anni ha rivelato il carattere della sinistra, che al suo interno ha certamente tanti bravi intellettuali, pronti a riconoscere in privato le colpe della sinistra, ma mai in pubblico, perché ne va della loro storia e del loro potere, una parola che in politica, come nella vita, è importante.
Il bipolarismo ha prodotto un ventennio conflittuale, ma non era certo stata tranquilla la Prima repubblica, flagellata dal terrorismo, dall’omicidio di Aldo Moro, e da una violenza politica continua. Non dobbiamo perdere il bipolarismo, né il berlusconismo: per stabilizzare felicemente l’emulsione di liberalismo e populismo è necessario il massimo realismo politico, che è quanto manca da troppo tempo alla cultura politica italiana.