Se li conosci li eviti. Come combattere e rovesciare le dittature nel mondo

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Se li conosci li eviti. Come combattere e rovesciare le dittature nel mondo

03 Agosto 2010

Consultando la mappa della libertà del 2010 stilata da Freedom House, un’organizzazione indipendente non governativa fondata nel 1941 negli Stati Uniti, appare evidente come la totalità del Medio Oriente insieme a gran parte dell’Africa e  dell’Asia siano classificate come paesi non liberi. La stima condotta per realizzare questa mappa interattiva del mondo si basa su un’analisi delle libertà civili ( come la libertà di credo e di espressione, la garanzia dei diritti delle persone e delle organizzazioni) e di quelle politiche (come il diritto di votare liberamente, di partecipare alla competizione elettorale o di fondare partiti politici) presenti in questi paesi. Oltre 45 paesi vengono considerati privi delle libertà fondamentali e classificati come non liberi. Tra questi, la maggior parte, si trova in un regime di dittatura.

La dittatura è un fenomeno molto antico. Nel testo “Elementi di teoria politica”, il professor Sartori ricorda che la dittatura è un’istituzione che affonda le sue radici in epoca romana. All’origine si trattava, però, di una carica temporanea, dotata di pieni poteri civili e militari, che serviva ad assolvere uno specifico compito. Con il passare del tempo, le dittature di Mario e di Silla avvicinarono la dittatura al senso moderno del termine. Il novecento è il secolo che ha conosciuto la forma più estrema di dittatura attraverso i regimi totalitari nazisti e fascisti e quelli comunisti. Con la decolonizzazione, molti paesi, precedentemente soggetti al dominio coloniale delle potenze europee, sono caduti nelle mani di personaggi politici che hanno assunto il monopolio della scena pubblica.

Favorita dal clima di instabilità politica e dalle guerre civili che hanno dilaniato molti paesi, si pensi al Rwanda o all’Algeria, la dittatura è caratterizzata dall’assenza di libertà, sia politica che civile e dalla mancanza di leggi che tutelino la sicurezza personale. Questi regimi politici sono espressione di un potere accentrato che, nella maggior parte dei casi, si riconduce al potere discrezionale di una persona, in quanto la personalizzazione del potere è la caratteristica principale dei sistemi dittatoriali. Può sorgere e perpetuarsi in diversi modi, a seconda dei luoghi e dei tempi: nascere da un colpo di stato oppure da una guerra civile o, ancora, dalla degenerazione di una carica istituzionale che viene monopolizzata a vita.

Prendendo spunto dall’inserto estivo di Foreign Policy redatto da George B.N. Ayittey anche noi abbiamo deciso di stilare una breve analisi delle dittature presenti nel mondo. Per non abbassare la guardia nei confronti dei soprusi che vengono perpetrati in molti paesi contro la libertà di espressione politica e sociale, proponiamo un’analisi di alcune dittature contemporanee classificate a seconda del tipo di controllo esercitato sulla loro cittadinanza.

I dittatori africani. L’Africa pullula di despoti che, una volta assunta la guida del paese, hanno istituito un regime tirannico e illiberale. Giunti al potere in seguito a delle guerre civili, come Meles Zenawi in Etiopia, o attraverso un colpo di stato, come Compaoré in Burkina Faso o Idriss Deby in Ciad, questi dittatori, nella maggior parte dei casi, hanno istituito un sistema monopartitico che monopolizza e controlla l’intera sfera di azione politica e sociale. In molti casi si tratta di paesi molto poveri, ancora dilaniati da conflitti interni e da problemi sociali.

Una volta messo fine al dominio coloniale delle potenze europee, i nuovi leader africani, che avevano guidato il loro popolo all’indipendenza, si volsero alla creazione di strutture statali accentrate e rigide, sostituendo al regime parlamentare quello presidenziale. Kapuscinski ricorda che “al momento della conquista della libertà, in Africa non esisteva una tradizione statale per cui, all’epoca dell’indipendenza, l’Africa non aveva modelli a cui ispirarsi. L’Africa adottò quindi le soluzioni altrui, pensando che quello che aveva funzionato altrove avrebbe funzionato anche qui. L’Occidente è responsabile dell’assetto dell’Africa indipendente e dei suoi insuccessi. Abbandonando l’Africa, gli europei vi hanno lasciato problemi irrisolti”.

Gli attuali dittatori che si sono sostituiti ai primi leader in maniera cruenta, o che ne hanno ereditato il posto, hanno perseguito le stesse finalità politiche dei primi, istituendo un regime di polizia in cui l’informazione e la giustizia sono pilotate e la corruzione dilaga. Biya e Mugabe sono due dei dittatori africani più longevi che, da oltre trent’anni, continuano ad insanguinare la politica africana. Probabilmente, vista la loro veneranda età, i loro rispettivi paesi, nei prossimi anni, saranno teatro di importanti cambiamenti.

Paul Biya in Camerun si trova al potere da ventotto anni nel corso dei quali ha costruito un sistema di potere quasi inattaccabile. Ha preso il posto del presidente Ahidjo nel 1982 che, già nel 1966, aveva instaurato un regime a partito unico. Sebbene Biya abbia reintrodotto il multipartitismo, il Raggruppamento democratico del popolo camerunense resta il principale attore politico che controlla il parlamento. Nel 2008 il parlamento camerunense ha anche approvato la riforma costituzionale che elimina il limite di due mandati presidenziali, affinchè Biya, all’età di 76 anni, possa ricandidarsi nel 2011, quando si terranno le nuove elezioni.

Un altro nefasto esempio di dittatore africano, responsabile di aver trascinato il paese in una profonda crisi economica, è Robert Mugabe, da oltre trent’anni a capo dello Zimbabwe prima come primo ministro e, dal 1987, come presidente. Egli è apparso sulla scena nazionale come un paladino della liberazione. Inizialmente impegnato come segretario organizzativo del Partito democratico Nazionale di Joshua Nkomo che si opponeva al governo della minoranza bianca, quando il Ndp fu bandito, Mugabe fondò lo Zanu- Pf in Tanzania. Dopo essere stato imprigionato per ben dieci anni, nel 1974 si rese protagonista di una seconda guerriglia contro il regime che portò alla fine del governo dei bianchi nel 1980 e, attraverso un’epurazione dei movimenti di opposizione, collocò il suo partito alla guida del paese.

Da allora lo Zimbabwe è un paese in perenne crisi economica, in cui le elezioni sono regolarmente contrassegnate da violenze e intimidazioni, dove l’inflazione è alle stelle e la crisi del settore agricolo affama la popolazione. Nel 2009 sono apparsi dei segnali di cambiamento che hanno portato dei miglioramenti attraverso la formazione di un governo di unità nazionale e con la nomina a primo ministro di Morgan Tsangirai, leader del Movimento per il Cambiamento democratico (Mdc). Ma, secondo molti analisti internazionali, questa mossa fa parte della strategia di Mugabe per prolungare la sua permanenza al potere.

Sebbene con storie diverse la situazione è simile in molti altri paesi africani come il Ciad, la Guinea Equatoriale, l’Etiopia, l’Uganda, la Costa d’Avorio, il Burkina Faso, il Congo Brazzaville, il Gambia, ecc. Dall’Algeria allo Zimbabwe la longevità dei dittatori africani detta le proprie regole agli abitanti del Continente nero. I leader africani sono interessati a prolungare i loro mandati perché solo stando al governo possono continuare ad arricchirsi. Per cambiare lo stato delle cose le costituzioni degli stati africani dovrebbero ridimensionare i poteri e i privilegi dei capi di governo, ma per far sì che questo avvenga devono nascere e riuscire ad affermarsi dei movimenti di opposizione e di resistenza nazionali.

Il potere delle giunte militari.
Nella storia nazionale di molti paesi i militari hanno sempre giocato un ruolo molto importante. Impegnati nella salvaguardia dell’ordine costituito oppure al soldo dei movimenti rivoluzionari, a più riprese, nel corso del novecento, i militari hanno assunto il potere politico. Si pensi alla Turchia, dove il ruolo dei militari, garanti dei principi kemalisti su cui si basa la Repubblica, è sempre stato fondamentale nei momenti di crisi del paese.

Le giunte militari che ottengono il potere costituiscono, in generale, un governo di tipo transitorio che serve a controllare il passaggio di poteri da un regime all’altro. Recentemente, una giunta di questo tipo ha ottenuto il potere in Guinea Conakry, dove, in seguito alla morte di Lansana Conté, dittatore morto il 22 dicembre 2008, degli ufficiali subalterni, condotti dal capitano Moussa Dadis Camara, hanno messo in atto un colpo di stato incruento. Nonostante il golpe avesse inizialmente sospeso ogni attività politica e vi siano stati vari episodi di violenza, le recenti elezioni, che si sono svolte nel giugno di quest’anno, hanno consentito il passaggio di poteri ad un governo di tipo democratico.

Sono ormai quasi cinquant’anni, invece, che questo tipo di transizione viene atteso in Birmania, paese in cui i militari governano dal 1964, in seguito al colpo di stato organizzato dal generale Ne Win che rovesciò un governo democraticamente eletto. Il consiglio rivoluzionario al potere consolidò il potere giudiziario, legislativo ed esecutivo e perseguì delle politiche socialiste e isolazioniste rendendo la Birmania una delle regioni più povere del Sud est asiatico. L’attuale giunta ottenne il potere nel 1988 quando l’esercito aprì il fuoco contro una protesta studentesca a favore della democrazia.

Una giovane generazione di comandanti dell’esercito creò lo State Law and Order Restoration Council (SLORC) che ancora oggi guida il paese con il nome State Peace and Development Council (SPDC). Quando nel 1990 lo SLORC subì una sconfitta elettorale in favore della National League for Democracy, guidata da Daw Aung San Suu Kyi, i militari si rifiutarono di cedere il potere e imprigionarono i membri del partito d’opposizione. Dal 1993 alla guida della giunta si trova Than Shwe e i militari riescono a governare solo tramite la repressione, come hanno dimostrato gli eventi del settembre 2008, quando una protesta di monaci è stata soffocata a colpi di pistola.

L’informazione è pilotata e qualunque forma di protesta viene messa a tacere, gli oracoli e la numerologia sembrano avere un maggior ascendente sui militari delle condizioni di vita della popolazione, il SPDC controlla tutti i poteri: esecutivo, giudiziario e legislativo, sopprime ogni diritto basilare e viola costantemente i diritti umani. Sebbene il governo cerchi di presentarsi agli occhi degli osservatori internazionali impegnato nella transizione verso la democrazia, attraverso la promozione di una Road Map che prevede per il 2010 delle elezioni libere,  prima che la Birmania torni ad essere un paese democratico dovremo ancora aspettare a lungo, visto che la costituzione del 2008 riserva un’ampia porzione di seggi del parlamento ai militari e alle fazioni leali al regime birmano.

L’ideologia delle Repubbliche autoritarie. Gheddafi e Hu Jintao sono due leader che incarnano nei loro regimi un’ideologia che si è affermata nel corso del novecento. Mentre Gheddafi ha legittimato la sua ascesa al potere attraverso un’ideologia che si configurava come una terza via tra il comunismo e il socialismo, Hu è il dirigente del Partito Comunista Cinese che tiene le redini dello stato. Sebbene entrambi i paesi si siano aperti recentemente al liberalismo economico e al capitalismo più sfrenato, contraddicendo l’ideologia di Stato, il benessere economico generato dall’apertura dei mercati continua a legittimare i regimi in carica nonostante le numerose violazioni dei diritti umani.

Sono ormai quarant’anni che Gheddafi si trova a capo della Libia, sin da quando, nel 1969, è salito al potere attraverso un colpo di stato che ha rovesciato il re Idriss al-Sanusi. Il Colonnello ha dato vita ad una Jamahiriyya, una "repubblica delle masse", che intendeva configurarsi come una “terza via” tra la democrazia capitalistica e il socialismo sovietico. In teoria, il potere avrebbe dovuto risiedere nella mani del popolo attraverso un sistema di comitati di base che, tramite una piramide di rappresentanti, confluiva nel Congresso generale del Popolo, ma in realtà queste strutture sono state manipolate per assicurare il dominio continuo di Muhammad Gheddafi.

Sebbene questi non detenga nessun titolo specifico, egli è l’unico vero responsabile della politica interna e, soprattutto di quella estera. A distanza di anni la sua posizione appare ancora molto solida: l’importanza del senso di appartenenza tribale, le ricchezze provenienti dalle risorse petrolifere, insieme alla rete di relazioni internazionali che Gheddafi continua a tessere attraverso la recente apertura all’Occidente hanno dato nuova linfa al despota che, ormai, viene accettato di buon grado nei salotti internazionali. La legittimità conferita alla Libia dai buoni rapporti instaurati con l’Unione Europea in materia di immigrazione, quelli stretti con l’Italia e il miglioramento di quelli con gli Stati Uniti in seguito al riconoscimento degli errori passati e al rifiuto di dotarsi dell’arma nucleare, costituiscono un’ulteriore garanzia di longevità per il suo regime.

Hu Jintao è l’attuale leader della Cina, la nuova potenza mondiale giunta a minacciare e, probabilmente, a sovvertire la superpotenza americana la cui egemonia dura ormai da quasi un secolo. In Cina non esistono delle elezioni regolari, ma la scelta del leader viene effettuata dal congresso del Partito Comunista, l’evento politico più importante del paese, che si svolge ogni cinque anni. Durante questo Congresso, che dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese detta le linee guida della politica del paese, vengono promossi o rimossi i dirigenti. Fino al 2012 le redini della politica cinese saranno ancora nelle mani di Hu Jintao, ma allo scadere del suo mandato due delfini si dovranno disputare la carica più ambita.

Senza aver dato vita a, quasi, nessuna forma di comunismo economico, la versione cinese del marxismo va a braccetto con il capitalismo, lo sfruttamento dei lavoratori e l’eliminazione di qualunque tipo di previdenza sociale. Eppure, nonostante le critiche che le vengono rivolte, la Cina procede inesorabilmente verso la sua strada, anzi, secondo Pierre Haski "il partito regna da sovrano incontrastato e tutti quelli che ne avevano previsto il crollo dopo la repressione di Tienanmen, nel giugno del 1989, sono stati smentiti". Le contestazioni sono ancora molto diffuse, ma oggi nulla minaccia il potere di un partito che garantisce il 10% di crescita economica all’anno e una buona dose di “sogno americano alla cinese” a chi non ne raccoglie i frutti. Resta da capire fino a quando potrà durare questa situazione.

La fragilità delle Repubbliche mediorientali. Siria, Egitto e Sudan sono tre esempi di Repubbliche mediorientali che, pur con posizioni molto diverse nello scacchiere internazionale, sono caratterizzate da un capo di Stato a vita, dal soffocamento di qualsiasi opposizione, dal sabotaggio delle competizioni elettorali che si risolvono costantemente in una conferma plebiscitaria del Presidente e del suo partito al governo. Queste Repubbliche sono molto fragili e instabili, la loro continuità è assicurata dalla rielezione del Capo dello Stato, ma sorgono diversi interrogativi circa il loro futuro: per la Siria il declino del suo ruolo strategico a livello internazionale potrebbe indebolire ulteriormente la posizione di Bashar al-Assad, in Egitto le precarie condizioni di salute di Mubarak mettono a repentaglio il futuro del paese, mentre il Sudan deve affrontare un referendum che potrebbe modificare ulteriormente le sue sorti.

In Siria il partito socialista del Baath ha ottenuto il potere nel 1963 in seguito ad un colpo di stato. Da allora il potere è lentamente passato sotto il controllo degli ufficiali militari che appartenevano alla minoranza alawita. Dal 1970 con la presa del potere da parte del Generale Hafez al-Assad e, dopo la sua morte nel 2000, con la successione del figlio Bashar, a soli 34 anni, la Siria continua ad essere privata delle libertà politiche: i partiti di opposizione restano illegali, le minoranze vengono represse, come è il caso dei curdi siriani, e il capo del governo è nominato dal partito. La popolazione può solo confermare o meno la carica tramite dei referendum popolari che, il più delle volte, si rivelano essere dei veri e propri plebisciti. Le libertà di associazione e di riunione sono limitate. Bashar al-Assad, un giovane oftalmologo che ha studiato all’estero, ha disatteso tutte le promesse che la sua ascesa al potere avevano suscitato tra la gente.

Anche in Egitto vige il sistema del partito unico associato al presidente che detiene la carica a vita. Da Gamal Abdel Nasser che diventò presidente nel 1952 con la rivoluzione degli Ufficiali Liberi, ponendo fine alla monarchia, passando per Sadat, fino all’attuale Mubarak il potere è conservato attraverso dei referendum plebiscitari. Lo stato d’emergenza tutt’ora in vigore, la soppressione dell’opposizione, in particolare quella islamica, e il controllo sulla stampa fanno dell’Egitto di Mubarak un paese sotto controllo. Adesso che circolano delle voci sfavorevoli sullo stato di salute del Presidente, gli analisti internazionali avanzano delle ipotesi circa il futuro dell’Egitto senza Mubarak. Al momento sembra che il successore più papabile sia il figlio Gamal, anche se Mubarak aveva sostenuto, in diverse occasioni, di non voler rendere la carica presidenziale ereditaria.

Anche in Sudan, con il regime di Omar al-Bashir, il governo ha un carattere fortemente autoritario, in cui l’esecutivo prevarica il legislativo. Dal 30 giugno 1989, quando ottenne il potere in nome della salvezza nazionale, al-Bashir ha proseguito sulla via dell’islamizzazione del Sudan, attraverso la promulgazione di una nuova costituzione che ribadiva la centralità della shurà (consultazione tra pari) e della sharia, pur consentendo alle altre religioni di convivere con l’islam. Le ultime elezioni tenutesi quest’anno sono state teatro di brogli e di minacce confermando la guida del Sudan nelle mani di Omar al-Bashir. Nonostante la recente collaborazione con il Sudan People Liberation Movement che dura dal 2005, il Sudan deve affrontare un’ulteriore sfida: il referendum per l’indipendenza della regione del Darfur, ponendo così fine ad un conflitto che dura da ormai tanto, troppo tempo.

I paesi rentieri: quando le ricchezze petrolifere azzerano la democrazia. Uno stato rentiero è uno stato che ricava gran parte delle sue ricchezze da una risorsa naturale esogena, in questo caso il petrolio, sulla quale riposa gran parte della sua economia. I paesi del Golfo persiano sono, per la maggior parte, paesi che hanno visto le loro economie cambiare drasticamente in seguito alla scoperta del petrolio: da un lato essa ha generato immense ricchezze, ma dall’altro è servita a consolidare le famiglie che si trovavano al potere al momento dell’indipendenza. Sebbene non si possa parlare di vere e proprie figure dittatoriali, quel che è certo è che i membri di queste famiglie ricoprono tutti i ruoli di potere, dagli organi politici a quelli economici e industriali.

La popolazione locale è privata del diritto di eleggere i propri rappresentanti, né può formare partiti politici, l’informazione è controllata dalla famiglia regnante e il ruolo delle donne è subordinato a quello degli uomini. Questo stato delle cose sta lentamente cambiando. Mentre in Arabia Saudita il cambiamento avviene più lentamente, in altri paesi, come l’Oman e il Qatar è stato introdotto il suffragio universale che permette ai cittadini di eleggere dei Consigli consultivi che affianchino l’attività della famiglia regnante. Queste dinastie sono riuscite a mantenere il controllo sulla loro popolazione grazie all’alto tenore di vita che lo stato riesce a garantire ai propri cittadini fornendo beni come l’acqua, la benzina, l’elettricità in maniera gratuita o sussidiandoli a tutta la popolazione, redistribuendo, in questo modo, le ricchezze ricavate dal settore petrolifero.

La redistribuzione non nasce da una tassazione dei singoli cittadini, come accade, per esempio, nei paesi europei, ma assume un valore di concessione che i regnanti offrono ai loro sudditi senza chiedere in cambio nulla. In questo modo, viene a mancare il controllo del cittadino sull’operato del governo che si garantisce la fedeltà dei suoi cittadini.

Dai partiti comunisti al leader supremo. La dissoluzione dell’Urss ha creato una lunga serie di dittature personali accentrate nelle mani dei personaggi a capo dei diversi partiti comunisti nazionali presenti nei vari paesi: dalla Bielorussia di Lukashenko al Vietnam, passando per Turkmenistan e Kazakistan le dittature dilagano. Il caso più eclatante, forse per la vicinanza geografica, è la dittatura di Lukashenko in Bielorussia, l’ultimo dittatore d’Europa, come viene definito dai giornalisti. Diventato il primo presidente dopo la caduta dell’URSS, non si è più allontanato dalla carica concentrando i poteri nella presidenza e riducendo il peso dei partiti politici.

Lukashenko ha reso la Bielorussia uno stato satellite della vicina Russia sia per quanto riguarda le alleanze internazionali, sia nelle relazioni economiche. Nonostante le pressioni dell’Unione Europea per introdurre delle riforme, i metodi politici di Lukashenko non sono cambiati di molto: le forme di opposizione vengono ostacolate e messe a tacere attraverso l’uso della violenza da parte della polizia di stato, i media indipendenti vengono censurati e minacciati. Il presidente della Bielorussia sembra intenzionato a restare ben saldo al suo posto finché sarà in vita, ma resta da vedere se la società civile bielorussa e le nuove alleanze internazionali glielo consentiranno.

L’Asia centrale, pullula di ex repubbliche sovietiche ora oppresse da regimi dittatoriali. Un esempio è l’Uzbekistan di Islam Karimov. Dal referendum per l’indipendenza del1990 Islam Karimov, precedentemente leader del partito comunista, è il presidente dell’Uzbekistan. Da allora, qualsiasi partito d’opposizione è stato bandito dal Paese e il mandato presidenziale viene rinnovato attraverso delle elezioni che confermano, ogni volta, in maniera plebiscitaria, il consenso al presidente. Sebbene, recentemente, il paese stia cercando di ricostruire le relazioni con gli Stati Uniti e l’Unione Europea e fornisca una crescente cooperazione e un supporto logistico alle operazioni Nato in Afghanistan, il governo di Karimov continua a mantenere un controllo di stato repressivo vietando alle persone i loro diritti umani basilari.