Se l’Iran sciita diventasse una democrazia

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Se l’Iran sciita diventasse una democrazia

05 Luglio 2010

La rivoluzione islamica ha investito l’Iran di una grande autorità nel mondo sciita. A partire dagli anni Ottanta, la città iraniana di Qom ha eclissato Najaf come principale centro per gli studi sciiti, attraendo migliaia di dotti religiosi iracheni costretti all’esilio dal brutale attacco anti-sciita ordito dal governo di Saddam. Con l’impostazione khomeinista del dominio della fede, lo sciismo iniziò ad essere visto in molte regioni del mondo come un movimento fanatico e violento che si estendeva dall’Iran al Libano. Ma l’influenza spirituale dell’Iran è diminuita dopo la morte di Khomeini nel 1989 e la scelta dell’Ayatollah Ali Khamenei come suo successore. Lo scialbo Khamenei non possiede il livello accademico che è normalmente richiesto per raggiungere il grado di Ayatollah; fu elevato alla posizione poco prima che un comitato, formato dai religiosi più anziani, lo scegliesse come leader supremo. Si trattava un candidato di compromesso tra le varie fazioni che non desideravano eleggere un leader carismatico o di influenza come Khomeini.

Sotto Khamenei, il regime di Teheran ha continuato ad esportate la visione di Khomeini della rivoluzione islamica, anche nel vicino Iraq, dove gli sciiti costituiscono circa i due terzi della popolazione del paese, ma finora hanno preso il potere solo di rado. Molti politici sciiti che oggi governano l’Iraq hanno trascorso i loro anni formativi da esiliati in Iran. Dopo che Saddam fu cacciato dagli Stati Uniti nel 2003, i religiosi iracheni hanno iniziato a dibattere il loro ruolo nella politica. Muqtada al-Sadr e i suoi seguaci sostennero la partecipazione attiva dei religiosi nel riempire il vuoto lasciato dal sistema baathista. Arrivarono fino a sfidare l’occupazione statunitense e i suoi progetti di instaurare un governo ad interim costituito per la maggioranza da politici iracheni esiliati e laici come Ahmed Chalabi e Ayad Allawi. Dall’altra parte c’erano i tradizionalisti di Najaf  e i discepoli del Grande Ayatollah Ali al-Sistani, il più rispettato religioso iraniano in Iraq, che ha vissuto brevemente il potere politico. Sistani ha spinto i suoi seguaci a votare alle prime elezioni parlamentari irachene nel gennaio 2005, ma da allora si è ritirato dalla vita politica tornando alle sue radici nella scuola quietista.

Oggi, l’Iran esercita un’influenza su gruppi sciiti come lo Hezbollah in Libano e il Supremo Consiglio Islamico iracheno, guidato dal religioso Ammar al-Hakim, che è finanziato, paradossalmente, sia dagli Stati Uniti che dall’Iran. Entrambi i gruppi accettano la dottrina del wilayat al-faqih. (Il Consiglio supremo, i cui leader hanno vissuto in Iran per oltre venti anni, ha omesso il termine “Rivoluzione islamica” dal suo nome nel 2007 per evitare di essere identificato con il regime iraniano).

Durante le elezioni parlamentari in Libano lo scorso anno, i leader cristiani e sunniti hanno sollevato dei timori nei confronti dell’influenza iraniana sullo Hezbollah. Ci si aspettava che una coalizione guidata da Hezbollah vincesse la maggioranza dei seggi in parlamento ma così non è stato. Dopo le elezioni, il leader di Hezbollah, Sayyid Hassan Nasrallah, ha avvertito i suoi oppositori di non mettere in dubbio la fedeltà del suo gruppo alla dottrina iraniana. “Per noi, il wilayat al-faqih e le questioni del genere fanno parte del nostro credo religioso”, ha detto. “Insultare questa dottrina equivale a insultare il nostro credo.” Ma la scelta di Nasrallah di adottare la linea del regime iraniano non è affatto universale. Anche alcuni dottori della legge a Qom contrastano la visione di Khomeini e lo stato autoritario che ha prodotto, ma si sono ritirati dalla vita pubblica per evitare un confronto con il regime. Per anni l’Iran ha fatto una guerra contro i religiosi dissidenti, imprigionandone molti e costringendo agli arresti domiciliari altri.

Incoraggiati  dalle proteste dello scorso anno, alcuni dotti dissidenti hanno parlato con forza. Un mese dopo le contestate elezioni presidenziali, il Grand Ayatollah Hossein Ali Montazeri ha emesso un verdetto religioso che, pur non menzionando Khamenei per nome, dichiarava che i leader iraniani non erano più adatti a governare. Questa è stata la critica più forte avanzata in venti anni da un collega religioso. Montazeri ha affermato che i leader che mettono i loro interessi personali prima di quelli della popolazione violano la fiducia implicita tra governati e governanti. “Quei leader sono dei trasgressori e degli usurpatori e, quindi, perdono il loro diritto a governare”, ha scritto. “Spetta alla gente esigere la loro rimozione dall’incarico”.

Montazeri, morto lo scorso dicembre all’età di 87 anni, era uno dei religiosi più anziani in Iran. Era l’erede designato di Khomeini fino alla fine degli anni Ottanta, quando ha condannato le violenze commesse nel nome della rivoluzione. Nelle sue critiche a Khamenei l’anno scorso, Montazeri ha riproposto un argomento che lui e altri religiosi hanno portato avanti per anni: un sistema di governo islamico deve poggiare sulla sovranità di Dio così come sulla sovranità del popolo. “Il governo non otterrà la legittimazione senza il supporto della popolazione”, ha scritto. “La condizione necessaria e obbligatoria per la legittimità del governante è la sua popolarità e che il popolo sia soddisfatto di lui.”

Dopo le contestate elezioni, era stato riportato che il precedente presidente iraniano, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, aveva aiutato alcuni dotti dissidenti a Qom. Rafsanjani guida l’Assemblea degli esperti, un gruppo di anziani teologi che nominano e hanno il potere di rimuovere il leader supremo. Era improbabile che Khamenei venisse rimosso dall’incarico e Rafsajani sembra aver recentemente raggiunto un compromesso con lui.(Rafsajani in un primo momento ha supportato l’opposizione in seguito alle elezioni presidenziali ma, quando le misure repressive del regime si sono intensificate, è tornato sui suoi passi, vicino al leader supremo.)

Un’ipotesi emersa negli anni passati consiste nel permettere ai religiosi più anziani di ridefinire la posizione del leader supremo, costringendolo a dividere il potere con un piccolo consiglio formato da altri religiosi. Questa ipotesi di condivisione del potere è vicina all’interpretazione tradizionale del wilayat al-faqih, prima che Khomeini la ridefinisse. Per come stanno adesso le cose, Khamenei ha ulteriormente consolidato il suo potere di leader supremo ed è improbabile che lo abbandoni. Un tale cambiamento dovrà, quindi, aspettare la morte di Khamenei o che egli diventi così fragile o malato da non poter più ricoprire l’incarico, o che l’assemblea degli esperti lo dichiari incapace a governare. Per quanto possa sembrare improbabile in questo momento, non si tratta di un’idea rivoluzionaria che richiede un massiccio sollevamento popolare: questo concetto è parte integrante di quella cultura sciita che è stata sistematicamente soppressa dal 1979.

Una reinterpretazione del wilayat al-faqih potrebbe offrire una via d’uscita alla crisi iraniana: il clero manterrebbe il controllo sui problemi religiosi e sociali, ma abbandonerebbe il potere politico. Vi sono ampi precedenti storici e teologici nello sciismo che giustificano un tale compromesso. In definitiva, la visione khomeinista di un leader onnipotente deve essere per forza modificata. Gli iraniani, però, potrebbero riprendere dalla storia sciita le basi di un nuovo sistema politico che resterebbe islamico pur essendo genuinamente democratico.

Tratto da Foreign Affairs

Traduzione di Annalisa Marroni