Se l’Ue boccia la sperimentazione sugli embrioni umani e protegge la vita
19 Ottobre 2011
Un brevetto su una qualche procedura che comporti la distruzione di un embrione umano non si può fare. Si possono invece brevettare procedimenti che coinvolgono embrioni umani se risultano di una qualche utilità per l’embrione stesso: una diagnosi o una cura, ad esempio.
In altre parole, niente profitti in Europa dalla distruzione di embrioni umani.
Lo ha stabilito in punta di diritto la Corte di Giustizia europea, che a scanso di equivoci ha specificato di aver preso in esame il problema da un punto di vista esclusivamente giuridico, lasciando da parte qualsiasi considerazione etica o anche medica.
Un pronunciamento importante, che innanzitutto spazza via tante critiche strumentali alla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, trattata per anni da certi commentatori e politici come una norma “oscurantista”, “antiscientifica”, sostanzialmente la quintessenza dell’illegalità. Proprio la nostra legge, infatti recita, al comma 2 dell’art. 13:
“La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative.”, perfettamente in linea con la sentenza della Corte Europea: è possibile intervenire sull’embrione solo quando ne può trarre benefici l’embrione stesso.
Un embrione umano non può mai essere mercanteggiato perché la qualifica di “umano” è sua fin dal primo istante della sua esistenza, e non dopo certe fasi di sviluppo – per esempio a quattordici giorni di vita- fantasiosamente stabilite in alcuni paesi, in basi a convenzioni del tutto discutibili.
La Corte europea, poi, rende ancora più ampia la definizione di embrione, includendo anche quelli formati mediante trasferimento nucleare – il metodo utilizzato per far nascere la pecora Dolly, per capirci – e quelli per partenogenesi da ovocita non fecondato – cioè quando il gamete femminile si divide e si sviluppa come un embrione pur non essendo stato fecondato.
L’embrione umano è cioè giuridicamente riconosciuto come tale in base alle modalità di sviluppo, e non a quelle della sua formazione: una protezione molto ampia quindi, quella della Corte, che scoraggia fortemente le sperimentazioni estreme, quelle che hanno l’ambizione di cercare nuove modalità di creazione dell’umano diverse da quella naturale, diverse cioè dall’unione di gameti di persone di sesso differente.
Un punto da non sottovalutare: se il cuore della sentenza mette una pietra tombale sulla distruzione di embrioni umani a fini di ricerca, con l’ampia definizione di embrione la Corte scoraggia fortemente quelle sperimentazioni sull’umano rese possibili da certe recenti tecniche biomediche.
In questo modo sono anche sconfessate quelle strategie di ricerca avallate anche dall’ultimo governo Prodi, che rese possibile utilizzare i fondi del Settimo Programma Quadro di Ricerca e Sviluppo, finanziato dalla UE, anche per ricerche che presupponevano la distruzione di embrioni umani. Ricordiamo tutti quando l’allora ministro Mussi rifiutò di aderire alla minoranza di blocco europea che fino a quel momento aveva impedito di usare i fondi europei per la ricerca in tal senso: mancando l’adesione dell’Italia, venne a mancare il blocco europeo alle ricerche che implicavano la distruzione degli embrioni.
Adesso è l’Europa a dire che quelle ricerche non porteranno a nessun profitto, e quegli investimenti nell’ambito del settimo programma quadro, sottratti ad altre linee di ricerca, rimarranno infruttuosi, almeno dal punto di vista economico.
E’ bene ricordare che questo pronunciamento della Corte di Giustizia europea parte da una denuncia di Greenpeace all’ufficio brevetti tedesco: un bell’esempio, da parte della nota associazione ecologista e pacifista, di perseguimento di quella “ecologia dell’umano” che tante volte Benedetto XVI ha richiamato nei suoi discorsi, e che potrebbe benissimo essere un punto di convergenza fra orientamenti culturali differenti, ma che pare tuttora improponibile nel nostro paese, dove il mondo ecologista è rimasto imprigionato negli schemi ideologici della sinistra radicale.
Eppure è stato il direttore delle campagne italiane di Greenpeace, Alessandro Gianni, a dichiarare ieri, testualmente:
“La vita non si può brevettare e oggi la Corte di Giustizia della UE dà ragione a questo principio. [….] Per noi si tratta di una conferma del principio visto che ci sono dei limiti chiari e invalicabili sugli embrioni umani. Questo brevetto non ha niente a che fare con la ricerca. […] La brevettabilità di embrioni umani porta con sé il rischio concreto di clonazione ma anche della nascita di un mercato degli embrioni umani. La conferma dello stop ai brevetti sulla vita da parte della Corte UE previene proprio questi pericoli”.
La battaglia sulla brevettabilità della vita, insomma, è portata avanti pure da ambienti tradizionalmente lontanissimi da quelli “pro-life”, come dimostra anche un recente articolo di Angiolo Bandinelli – area radicale – sul Foglio del 22 settembre scorso.
Quella segnata oggi dalla sentenza della Corte di Giustizia europea potrebbe essere quindi un’occasione per nuove, inedite e – francamente – insperate alleanze fra chi si oppone a certe manipolazioni della vita e dell’umano.