Se Merkel crolla sull’immigrazione

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Se Merkel crolla sull’immigrazione

31 Agosto 2016

Al bilaterale tra Italia e Germania di Maranello si parla anche di immigrazione ma è da un po’ che la politica della “porta aperta” mostra scoperto il suo profilo più assurdo. E Berlino è stata costretta a fare diversi passi indietro per velocizzare, questa volta, il processo dei rimpatri e rendere le frontiere meno permeabili.

Duecentoventimila migranti, a maggio, hanno ricevuto l’ordine di lasciare il paese, mentre altri undicimilatrecento erano già stati allontanati. Ma oltre all’assenza di accordi bilaterali con diversi paesi nordafricani (indispensabili per i rimpatri forzosi!), le autorità tedesche hanno riconosciuto a molti immigrati una protezione fatta di sussidi. Il che ha messo sul tavolo una soluzione che, se da un lato prova a garantire un monitoraggio più scrupoloso attraverso verifiche più frequenti della validità dei documenti di soggiorno, d’altro canto impedisce gli allontanamenti.

Ma è pur vero che i migranti ormai trovano controlli più serrati: il numero di immigrati senza permesso di soggiorno, a cui è stato negato l’ingresso, nei primi sei mesi del 2016, ha già superato quello dell’intero 2015. Al di qua dei varchi di frontiera è rimasto circa il 50% di migranti irregolari in più rispetto all’anno scorso. E la cancelliera tedesca oltre all’evidenza del fallimento della sua idea di ‘integrazione‘, ha provato anche a correre ai ripari mettendo in cima alla lista delle preoccupazioni il tema sicurezza.

In una stagione inaugurata dai fatti di Colonia, e proseguita come ben sappiamo, Merkel sta provando a mettere qualche toppa visto che domenica prossima sfiderà il partito di destra anti-immigrati, Alternative für Deutschland (AfD), nello stato federale di Mecklenburg-Vorpommern (è il Land in cui è sempre stata eletta al Bundestag fin dal 1990), in attesa, poi, dell’11 settembre, quando seguirà il voto per il Comune di Berlino.

L’atteggiamento della cancelliera e le lacune della sua politica non sono sfuggite alla leader del movimento di destra, Frauke Petry, che in campagna elettorale ha puntato tutto sugli attentati di luglio compiuti da immigrati musulmani. E dopo aver sottolineato la mancanza di sicurezza che spaventa il popolo tedesco, come conseguenza dell’arrivo di circa un milione di immigrati nell’ultimo anno, nelle scorse ore ha giudicato il celeberrimo “ce la faremo” di Angela Merkel come “l’espressione di un’ideologia repressiva”.

Petry non ha esitato a soffiare sotto la fiamma dell’insofferenza rispetto all’ingerenza dell’islam, che s’inizia a respirare in Germania: “Noi siamo per il divieto del velo integrale. E non ci convince l’argomentazione per cui il bando sarebbe incompatibile con la libertà religiosa. Noi partiamo dal presupposto che i diritti fondamentali debbano essere intoccabili. Ma esistono diritti che possono entrare in conflitto l’uno con l’altro. In Germania il fatto di riconoscersi, di guardarsi nel viso, fa parte della vita quotidiana. Il velo integrale ha già creato tanti problemi, nella sfera pubblica. Perciò nei prossimi giorni presenteremo in tutti i Land in cui siamo presenti un bando totale del burqa”.

Parole che hanno un sapore davvero diverso rispetto a quelle usate dalla Merkel quando, la scorsa settimana, negava (ancora!) l’esistenza di una relazione diretta tra il numero dei rifugiati e quello degli attacchi terroristici nel paese. Toni concilianti e affabulatori quelli della Merkel, che non trovano certo eco nel risentimento crescente del suo stesso elettorato. Secondo un sondaggio del quotidiano tedesco Deutsche Welle, il 51% dei tedeschi è dell’idea che un flusso così alto di rifugiati possa (sic!) sovraccaricare il sistema del welfare. E’ di questo avviso ben l’83% degli elettori dell’AfD, e persino, il 52% dei sostenitori della Cdu. Alla domanda: “Ci saranno più attacchi terroristici in Germania in seguito alla politica d’immigrazione del governo”?, il 59% ha risposto di ‘sì’.

Cinque anni fa, parlando a Potsdam, la cancelliera disse che “i tentativi di creare in Germania una società multiculturale sono totalmente falliti”, aggiungendo che “l’idea secondo cui persone provenienti da diverse realtà culturali possano vivere le une vicine alle altre in modo felice non ha funzionato”. Le frasi sul fallimento del modello multiculturale non sono mai state smentite, neanche quando lo scorso autunno raccontava ai suoi colleghi europei (provocatoria sui muri di Orbán e le prese di posizione polacche) che la sua Germania poteva, con tutta tranquillità, permettersi di accogliere chiunque fuggisse dalla sua terra, senza bisogno di quote. Però il sistema di accoglienza e di inserimento è esattamente lo stesso bocciato cinque anni fa, con gli annessi corsi di lingua da superare, pena il rimpatrio.

Da sempre i cantori del multiculturalismo hanno esaltato il ruolo della scuola come fattore d’incontro e mescolanza. Ma in Germania, come negli autogestiti sobborghi di Bruxelles e nelle banlieue parigine, sono proprio i bambini rifugiati che tendono ad isolarsi e a frequentare le scuole vicine ai centri d’accoglienza o nei quartieri abitati da immigrati. Il risultato? Non imparano neanche la lingua del posto: in nome del multiculturalismo si è finito per costruire ghetti, per favorire tensioni sociali e la radicalizzazione di affermazioni identitarie.

L’illusione che bastasse il marchio di multiculturalismo per diventare immediatamente giusti, corretti e moderni, inizia a incrinarsi. E la prova dell’egemonia dell’ideologia multiculturale è costituita dagli infiniti atti legislativi che a furia di voler garantire una malsana idea di libertà, hanno finito per proibire, a moltissimi, la più naturale e discreta affermazione di appartenenza culturale e religiosa. L’unica conseguenza è stata un deserto d’identità, il contrario, in teoria, di quanto affermato dall’ideologia multiculturale. Proprio come quando il comunismo e la socializzazione (pretesa) dei beni rendevano i poveri ancora più poveri.

Il desiderio appassionato di riconciliazione con il mondo musulmano ha portato a uno stato di dhimmitudine. Nella perversione del “multikulti” rischiamo di diventare dhimmi, cioè schiavi. Ma, forse, ora, melting pot non è più così pop.