Se nel nostro paese è nata la Repubblica è anche merito del Psdi
19 Settembre 2010
Bisogna constatare con rammarico che la nascita di quello che in seguito sarà il Partito socialista democratico italiano, nato dalla scissione di palazzo Barberini del 12 gennaio 1947, non ha avuto il riconoscimento adeguato alla sua importanza nell’ambito della storiografia italiana sul socialismo, italiano e internazionale. Il prevalere della vis polemica tra gli attori che si sono trovati su sponde opposte a valutare il significato della scissione e di ciò che ne è conseguito nella vita politica italiana ha dato vita ad una ricerca storiografica di stampo certamente socialista.
L’orientamento assunto dalla storiografia nel ricostruire la fase della scissione e dei tentativi fatti per riunificare le due correnti dominanti nel socialismo ha visto la prevalenza di storici orientati con uno sguardo benevolo soprattutto verso il Partito socialista italiano e più critico verso il Partito socialista democratico italiano, il quale non ha trovato ricercatori interessati alla sua storia. Tolte alcune pubblicazioni indirizzate a ricostruire la personalità del fondatore del partito, Giuseppe Saragat, meritevole certamente di attenta considerazione per essere in fondo l’ideologo della scissione, con il suo ampio patrimonio culturale e la sua elezione a Presidente dell’Assemblea costituente, prima, e Presidente della Repubblica, poi, a parte alcune eccellenti ricostruzioni delle figure dei padri del socialismo riformista, Turati, Treves e Matteotti, la ricostruzione delle figure importanti che hanno gravitato entro la storia del partito nei cinquant’anni di vita della Repubblica non ha dato quei frutti storiografici che assai meritavano per il concreto contributo alla nascita della Costituzione e al dibattito parlamentare nelle successive legislature -nell’ambito dell’Assemblea costituente (2 giugno 1945 – 31 gennaio 1948) e dalla prima Legislatura (8 maggio 1948) certamente fino alla nona Legislatura (1 luglio 1987)- nonché al successo delle importanti elezioni del 18 aprile 1948 con cui, grazie al risultato positivo conseguito dal PSLI (Partito socialista dei lavoratori italiani), l’Italia metteva una pietra miliare nel traghettare la Repubblica verso la democrazia occidentale.
Durante questo periodo, nonostante le tensioni interne al partito, vi furono uomini che con la loro presenza in Parlamento e con incarichi ministeriali importanti meritarono il plauso degli alleati governativi, di contro alle critiche che il Partito comunista e l’ala fusionista del Partito socialista italiano formulavano ripetutamente. Gli uomini che collaborarono al governo del Paese, anche se spesso con qualche titubanza e incertezza, e fecero vivere le alleanze di centro-sinistra permettendo all’Italia di avere governi capaci di realizzare il “miracolo economico” sulla scia della ricostruzione economica e, anche se con diffidenza, si adoperarono per una ricostruzione del socialismo italiano, pur senza riuscirci, collaborando successivamente con il partito di Craxi per la soluzione di importanti problemi relativi alla governabilità del Paese, quegli uomini non hanno avuto un posto adeguato nella storiografia italiana della Repubblica. L’elenco di coloro che avrebbero dovuto ricevere l’onore di una più dettagliata ricerca nella ricostruzione della loro vita politica, tolta l’attenzione dimostrata nei confronti di Saragat, ma anche di Giuseppe Romita, ministro dell’Interno chiamato a proclamare la vittoria della Repubblica contro la prosecuzione del sistema monarchico in Italia, quell’elenco vede, tra i molti che a vario titolo hanno contribuito all’affermazione del socialismo riformista italiano, i nomi di Roberto Tremelloni, Lodovico D’Aragona, Edgardo Lami Starnuti, Luigi Preti, Alberto Simonini, Giuseppe Emanuele Modigliani, Paolo Rossi, Giuliano Vassalli, Matteo Matteotti, Umberto Calosso, Bianca Bianchi, Ezio Vigorelli, Mario Zagari, Italo Pietra, Ugoberto Alfassio Grimaldi, Ugo Guido Mondolfo, Mario Bettinotti, Giovanni Cartia, Virgilio Dagnino, Basilio Cialdea, Ivan Matteo Lombardo e tanti ancora.
Le lacune nel tenere in ombra la loro azione politica e parlamentare o nello sminuire l’importanza del loro contributo dato alla vita della Repubblica, nonché la ricchezza delle loro analisi nel cogliere le difficoltà che hanno caratterizzato la vita politica, economica e sociale del Paese nella seconda metà del Novecento, quelle lacune vanno colmate con ricerche approfondite.
Oggi vi sono segni confortanti, che fanno sperare in risultati degni della migliore storiografia, al di là della passione narrativa, quasi diaristica di alcune pubblicazioni, quale ad esempio l’ottima ricostruzione degli eventi che hanno caratterizzato la vita del Partito socialista democratico italiano svolta da Giuseppe Averardi. Mi riferisco, invece, all’attento lavoro storiografico di Michele Donno (“Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il PSLI, 1945-1952”, Rubbettino, 2009) che attraverso la ricostruzione della figura di Saragat dal 1945 al 1952 ci fornisce uno spaccato della vita del partito in stretta connessione con la dinamica politica dell’Italia del tempo. Una ricerca che si spera Donno vorrà portare avanti fino all’anno della morte di Saragat (1988) che coincide con il dissolversi dello spirito unitario del partito, reso evidente con la mini scissione del 15 febbraio 1989 di Pietro Longo e Pier Luigi Romita che diede luogo alla effimera nascita del Movimento di unità e democrazia socialista. Del resto la vita del PSDI vive in sintonia con quella del suo fondatore.
Ma Michele Donno ha compiuto un’altra opera meritoria. Aderendo agli intenti degli eredi di Alberto Simonini, ci ha restituito l’immagine di uno dei dimenticati della storiografia ufficiale, di un politico che ha contribuito con Saragat alla nascita del Partito socialista dei lavoratoti italiani del 1947 e ha vissuto il momento affascinante della nascita della Costituzione repubblicana partecipando anche come deputato al processo legislativo della vita della Repubblica dall’Assemblea costituente alla nascita della Repubblica e oltre.
Il libro di Michele Donno (“Alberto Simonini socialista democratico. Da operaio a ministro della Repubblica, 1896-1960”, Rubbettino, 2010) ricostruisce il faticoso itinerario politico e umano di Simonini in una successione di eventi che ci vengono rappresentati con una tecnica di scrittura che non esiterei a chiamare “cinematografica”. Del resto la ricchezza della narrazione è integrata con un corredo iconografico che non è di lezioso abbellimento quanto piuttosto di supporto alla comprensione umana del politico e del filantropo. Del resto non avremmo potuto assaporare l’humus dell’intensità del rapporto di Simonini con il suo maestro Prampolini se non avessimo partecipato noi stessi visivamente all’evento che viene rappresentato e narrato.
E’ un libro cui bisogna accedere direttamente senza l’intermediazione di un lettore diverso da se stesso.
Michele Donno riporta alla nostra memoria il quadro di riferimento storico in cui il socialismo italiano si trovava nel dover fare una scelta tra l’abbraccio, certamente mortale, con il Partito comunista e una difesa della propria autonomia nel lavoro di costruzione di una società democratica portata a difendere i diritti della classe operaia senza condannarla all’asservimento ad una ideologia che dava già i segni del suo fallimento.
Parlerò, quindi, brevemente del disagio del socialismo italiano nell’immediato dopoguerra, allorché l’Italia si dava una Costituzione repubblicana e democratica e necessitava di governare con il contributo insostituibile di una sinistra democratica. Quella sinistra alla cui affermazione Giuseppe Saragat e Alberto Simonini diedero se stessi e la loro attività politica e di filantropi.
Questo breve excursus ci aiuterà a capire quanto sia importante la vita di un politico come Simonini nello sbrogliare la matassa di contraddizioni in cui il socialismo italiano si trascinava negli anni che vanno dall’Assemblea costituente all’anno della prematura scomparsa di Simonini.
Il secondo dopoguerra, fino alle elezioni del primo Parlamento della Repubblica -18 aprile 1948- è uno dei periodi più difficili della storia italiana. La politica interna è alla ricerca di un equilibrio, che consenta di impostare con chiarezza un lavoro organico e coerente per la ripresa della Nazione. Sono di questo periodo le polemiche sulla fisionomia da dare alla Consulta -l’Assemblea nazionale provvisoria con poteri esecutivi, nominata e convocata per dare un minimo di legittimità all’opera del governo-, sulla priorità nel tempo fra le elezioni amministrative e quelle politiche, sul cambio della moneta, ma soprattutto sui poteri della futura Assemblea costituente. A quest’ultima le sinistre intendono attribuire tutti i compiti tradizionali delle assemblee di questo tipo, mentre le destre mirano a ridurne il potere innovatore. Inoltre il Paese sentiva sul suo avvenire la spada di Damocle della scadenza storica del Trattato di pace, che lo minacciava della stessa sorte toccata alla Germania nel 1919. O comunque di una punizione capace di ferirlo nella sua stessa entità nazionale, con la minaccia, che si andava profilando, del disconoscimento della italianità di Trieste.
Se alle difficoltà politiche si aggiungono i dati ancora più gravi della condizione economica generale, si può immaginare fra quali angosce era costretta ad agire la nuova classe dirigente italiana. Basti qui ricordare che nella primavera del 1945, il costo della vita era aumentato di 18-20 volte rispetto al 1938, mentre i salari erano aumentati soltanto di 6 volte, a causa del blocco salariale imposto dall’amministrazione alleata.
Con il primo governo De Gasperi del dicembre 1945 si raggiungeva un relativo equilibrio politico, anche se la presenza dell’istituto monarchico continuava a turbare gli animi e teneva alta l’attenzione dell’ala sinistra dello schieramento politico.
Soltanto la vittoria repubblicana del 2 giugno, pur permanendo il disagio economico generale, sembra riportare un certo clima di distensione, che coincide con l’inizio dei lavori dell’Assemblea costituente.
Ma è proprio in questo periodo, cioè nella seconda metà del 1946, che entra in crisi il movimento socialista.
Il fascismo aveva alimentato nella classe lavoratrice un sentimento di rivolta radicale, che aveva spinto larghe masse di operai e di contadini verso il comunismo, inteso come soluzione definitiva della lotta antifascista e come strumento sicuro per stroncare sul nascere ogni tentativo di rivincita reazionaria. Il prestigio dell’URSS vittoriosa aveva cancellato il ricordo del patto russo-tedesco dell’agosto 1939, mentre la solida organizzazione del P.C.I. attirava le classi più giovani che si erano formate politicamente nella guerra partigiana e che avevano davanti agli occhi la visione desolante delle rovine materiali del Paese. I comunisti erano stati in prima fila contro i tedeschi e contro le brigate nere: e questo fatto sembrava sufficiente a garantire il contenuto democratico del partito di Togliatti. I comunisti avevano combattuto per l’indipendenza e per la libertà dell’Italia, ed era difficile alle nuove forze di sinistra pensare di dare una nuova struttura politica all’Italia. Si poteva, quindi, secondo molti dirigenti del Partito socialista, operare la fusione fra socialisti e comunisti.
In tutti i tradizionali partiti di sinistra italiani, e persino in alcuni settori del Partito d’Azione, le idee e i sentimenti tendevano a rifondersi in una prospettiva politica, al centro della quale stava l’immagine piuttosto confusa, ma non per questo seducente, di un “partito unico della classe lavoratrice”.
A chi era rimasto fedele al socialismo democratico non restava che riprendere la battaglia per la sua autonomia, anche a costo dell’impopolarità e dell’isolamento. Vero pericolo d’isolamento, perché questa battaglia doveva essere condotta contemporaneamente a quella diretta ad instaurare un’autentica democrazia moderna, emendata dai difetti caratterizzanti il regime demo-liberale prefascista, che avevano contribuito non poco alla rovina della democrazia.
Vero è che l’indicazione, che i socialisti non riuscivano a trovare per proprio conto, era venuta invece dalla massa degli elettori, i quali avevano dimostrato di custodire le tradizioni migliori del socialismo italiano con più sicura fede, e avevano offerto il loro appoggio nella fiducia che il partito dei socialisti si facesse centro propulsore della nuova democrazia. Le prime elezioni amministrative del 1946, infatti, erano state un grande successo per il Partito socialista. Esse facevano sperare che si stesse realizzando (e non in via provvisoria, come invece avverrà) quella alleanza fra classe operaia e ceto medio, che era sempre stata considerata da Giuseppe Saragat, tornato ad essere la guida dei socialisti autonomisti, condizione fondamentale per la formazione di un vasto fronte democratico e progressista. Persino nei centri industriali della Lombardia e del Piemonte il Partito socialista aveva superato i voti raccolti dalle liste comuniste. Eppure il 1946 doveva essere l’anno terribile del socialismo italiano.
Già il congresso nazionale di Firenze, nell’aprile di quell’anno, aveva messo in luce grandi divergenze fra i dirigenti del Partito socialista e il momento critico era stato superato solo perché era troppo vicina la data delle elezioni per la Costituente e del “referendum” istituzionale. La battaglia era stata rinviata ad un prossimo congresso, che si sarebbe aperto entro breve tempo (gennaio 1947).
Giuseppe Saragat, l’uomo che aveva sempre operato per unire i socialisti, si trovava ora nella necessità di condurre fino in fondo la chiarificazione dottrinaria, per salvare la sostanza democratica dell’idea e la sua forza autonoma rigeneratrice. Con quale animo egli abbia preso sulle spalle questa responsabilità, lo rivelano le pagine di antologia che riportano a quel momento, da lui e dai suoi compagni vissuto come un profondo dramma umano. Per una esatta puntualizzazione storica degli intenti che guidarono la decisione presa nel gennaio del 1947, è importante ricordare che fu da palazzo Barberini che si levò, insieme con la condanna del “fusionismo”, l’invito all’unità vera dei socialisti, all’unità che, pur lasciando libertà di dissensi sui problemi particolari e di tattica, riportasse tutti i militanti al dovere di non abbandonare la fede nella funzione autonoma del socialismo.
Le prime battaglie elettorali, che il nuovo partito fondato da Saragat affrontò, furono infatti condotte all’insegna dell’unità socialista, proprio nell’intento di porre l’accento, non sulla lacerazione in atto, ma sulla meta, ritenuta immancabile, della rigenerazione di un socialismo di tradizione italiana. In sostanza, parlando di unificazione socialista all’indomani della scissione, Saragat si proponeva di provocare non tanto una riappacificazione al vertice, quanto un dibattito più generale e aperto a tutti i compagni di fede, fuori e dentro i partiti.
Ma le vicende nazionali e internazionali, che pure aggiungevano sempre nuovi motivi di giustificazione alla ragion d’essere del nuovo partito socialista democratico e autonomo, sul terreno pratico non contribuivano invece a spiegare il senso della scissione di palazzo Barberini alle masse popolari. Né queste riuscivano, in genere, a comprendere il significato della partecipazione del nuovo partito alle formazioni governative sorte da accordi con altri partiti democratici e soprattutto con la Democrazia cristiana.
Questa politica di solidarietà fra i partiti democratici giunge ad una svolta decisiva, quando viene sul tappeto il problema dell’adesione dell’Italia al Patto atlantico. La primavera del 1949 è tutta occupata da accese polemiche dentro e fuori il Parlamento e mette in luce la frattura sempre più profonda tra i partiti di sinistra e i partiti di governo. L’adesione dell’Italia a questa politica mirante a garantire l’avvenire e lo sviluppo della giovane Repubblica, è difesa in Parlamento e sulle piazze da Giuseppe Saragat, la cui voce appare l’espressione più cosciente del socialismo, compreso della sua responsabilità nei confronti dell’intera collettività nazionale. Giuseppe Saragat si batteva con vigore per difendere la solidarietà democratica e la politica atlantica, affermando l’una e l’altra come necessarie e urgenti azioni di difesa delle istituzioni democratiche, allora assediate da una estrema destra reazionaria e da una estrema sinistra che si richiamava ancora a Stalin. Ma non era facile fare intendere, negli anni che vanno dal 1949 al 1953, che quella politica non significava alcuna rinuncia socialista o che in quel momento non erano in gioco questo o quel problema particolare della vita nazionale ma l’avvenire del Paese.
Le contraddizioni, ancora gravi, della società italiana e i numerosi problemi sociali avviati a soluzione, ma tuttora aperti, offrivano argomenti polemici che persuadevano le masse molto di più che l’onesta e responsabile parola dei socialisti democratici. Il margine di sicurezza per le forze democratiche tendeva, quindi, a ridursi, anziché ampliarsi, come si vide nei deludenti risultati delle elezioni del 1953, che rappresentarono un insuccesso tanto per De Gasperi quanto per Saragat.
Gli anni che seguono a queste elezioni sono contraddistinti da una più tenace opera di governo, attraverso un più corretto dialogo parlamentare; a poco a poco subentra una minore tensione negli animi. In campo socialista sembrano addirittura riaffacciarsi speranze di riunificazione, pur senza risultati pratici. Giuseppe Saragat, subito dopo il voto del 1953, riprende l’argomento dell’unità, ribadendo i concetti basilari sui quali era fondata la linea ideologica del suo partito, e cercando nel contempo di spiegare il vero significato della cosiddetta politica “centrista”, come scelta responsabile fatta dal socialismo democratico per riempire, nell’interesse generale del Paese, il vuoto costituito dalla politica ancora “frontista” del P.S.I.
Egli su questa linea continuerà fino a che nell’estate-autunno del 1956 le rivolte popolari in Polonia e in Ungheria commossero tutti i socialisti italiani, offrendo una prova clamorosa che Saragat aveva ragione di invitare il P.S.I. ad un riesame delle sue impostazioni politiche. Egli dichiarerà che il proprio partito era disposto a qualunque sacrificio, era disposto anche ad abbandonare le dirette responsabilità di governo, se ciò poteva essere un contributo per ricostruire, insieme con le forze del P.S.I., un partito di sicura ispirazione democratica e capace di svolgere un ruolo politico preminente.
Di tutti gli inviti e gli appelli rivolti da Saragat ce n’è uno, che ricapitola tutta la problematica del socialismo italiano, rielaborata sulla base delle esperienze recenti e meno recenti. Lo scritto si riferisce, anche nel titolo “Prima e dopo Pralognan”, ad un incontro estivo con Pietro Nenni.
Vi si trova immutata la base dottrinaria definita nel periodo dell’esilio, di cui si conservano il rigore e la logica concettuale, mentre la carica polemica varia da un articolo all’altro, o da un discorso all’altro, ed è graduata secondo le valutazioni dei particolari momenti politici in cui scrive e parla. Saragat è sorretto sempre dalla ferma convinzione che ancora una volta dai socialisti poteva venire il contributo decisivo per lo sviluppo della democrazia in Italia.
Una convinzione che in alcuni compagni di viaggio, e tra questi Simonini, veniva spesso messa in discussione, ma non per spirito di polemica quanto piuttosto per la ricerca di una soluzione limpida nel rapporto fra i due tronconi del socialismo italiano.
Concludendo e per tornate a Simonini, anzi alla pubblicazione voluta dai suoi eredi e prodotta con grande perizia tecnica dall’amico Michele Donno, credo che la migliore sintesi della personalità di Simonini sia l’elogio, purtroppo funebre, manifestato ad un anno dalla morte, dal suo amico di partito e Presidente della Corte costituzionale, Paolo Rossi. Un ricordo che vorrei fare mio, quale presidente della Fondazione Giacomo Matteotti, in questa occasione riportandola alla vostra memoria: “In Simonini colpivano subito tre aspetti: il realistico volere, la chiarezza delle idee, la profonda bontà. Per il concorso di queste tre rare componenti, sorgeva in chiunque lo avvicinasse, un sentimento di fiducia. Egli aveva l’autorità naturale, quella che si riconosce volentieri all’uomo, la cui guida appare retta e sicura. Nel carattere suo, limpido e fierissimo, non c’era posto per l’equivoco e l’ambivalenza. Ricordo di avere passato con Lui e con la cara compagna della sua vita, soli, le ore decisive che precedettero la scissione di palazzo Barberini. Era scuro in volto, turbato, pervaso nell’intimo dal senso di una grave responsabilità verso il suo passato, verso i lavoratori, verso il Paese… Era ovvio che un uomo tanto sicuro nel volere e nel pensare ispirasse una confidenza piena e un’assoluta devozione. Ma a questo risultato cospirava l’alto esempio di vita morale dato ininterrottamente da Simonini… Egli ebbe una vita di famiglia esemplare, un attaccamento tenero e spinto sino al sacrificio alla devota compagna della sua vita, alla figlia, alla memoria di un caro figlioletto morto bambino, ai nipoti che erano la sua felicità e il suo orgoglio… Lasciatemi chiudere questi cenni sull’uomo Simonini ricordando quella che fu in Lui la cosa più grande: il cuore. Basterebbero a testimoniare del suo cuore l’affetto per i bambini, le colonie di Rimini e Castelnuovo, che sono prove durevoli della sua attività realizzatrice, ma dimostrano soprattutto, create come furono in mezzo enormi difficoltà, tenute in vita col perenne assillo di trovare capitali, senza risparmio di fatiche, di accorgimenti, di fantasia, una immensa bontà, quella trascendente bontà che ci fa trascurare le cose nostre per pensare soltanto al bene degli altri”.
Angelo G. Sabatini è Professore ordinario di Filosofia politica presso l’Università degli Studi “Roma Tre” e presidente della Fondazione Giacomo Matteotti