Se non si vuole lasciare il monopolio a Fini, nel Pdl deve emergere la destra

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Se non si vuole lasciare il monopolio a Fini, nel Pdl deve emergere la destra

08 Ottobre 2010

Il soggetto politico fondato da Gianfranco Fini, che probabilmente diventerà partito a tutti gli effetti nel gennaio prossimo, comunque lo si giudichi è una realtà con la quale fare i conti. Altrettanto indiscutibile (almeno per ora) è la sua collocazione nel centrodestra dove la competizione con esso non è detto che debba essere bandita sul piano politico-culturale, innanzitutto. Una competizione che, per di più, dovrebbe attivare una stringente riflessione sul significato stesso dell’essenza della destra nel nostro tempo, superando l’indifferentismo che ha segnato (duole rimarcarlo) il processo di costruzione identitaria del grande contenitore berlusconiano.

Insomma, se non si vuole lasciare il monopolio della destra o, sarebbe meglio dire, di una simil-destra (per quanto le categorie significhino poco o niente, ma sono ancora utili ad ancorare orientamenti elettorali a soggettività riconoscibili) a Futuro e libertà, è indispensabile che la destra nel Pdl emerga nella sostanza della proposta derivante dalla sua storia e dalla sua cultura. Anche perché ciò che sta nascendo dalla scissione finiana, per quanto non ancora precisato in termini programmatici e progettuali, è qualcosa che assomiglia alla riduzione al relativismo culturale ammantato di quelle “feconde contaminazioni” che negli anni Ottanta, l’autentica Nuova Destra –  fenomeno culturale e metapolitico, avversato, guarda caso proprio dai più ortodossi custodi del vecchio missinismo – offrì una prospettiva all’impoliticità di un movimento chiuso in schemi corrosi dal tempo.

Basta leggere qualche frasetta rubacchiata qua e là dal pre-manifesto politico su cui dovrebbe fondarsi Futuro e libertà, per rendersi conto della leggerezza annunciata. Si parla di reazione all’”arteriosclerosi ideologica della ripetizione infeconda”; di “investimento sulla paideia”; dell’ambizione di rianimare gli intellettuali al fine di rendere “irreversibile la formazione di un nuovo soggetto pericoloso”. Certo il “sommovimento geologico delle categorie” (quanto è vecchio tutto questo: lo scrivevamo in una rivista alla fine degli anno Settanta che si chiamava “Elementi”!) fa sobbalzare i passatisti-futuristi, eppure di fronte a loro che nutrono ambizioni dichiaratamente politiche e non intendono per niente fare accademia, non si può restare inerti.

Per essere chiari, il Pdl, partito dichiaratamente di centro-destra (per una volta con il trattino) non è possibile che rinunci alla seconda parte della sua soggettività politica adeguandosi ad una pratica parlamentare volta esclusivamente alla gestione dell’esistente, a meno di non voler lasciare alle suggestioni dei “futurlibertari” i processi attrattivi dei quali la destra, senza nulla togliere a chicchessia, indiscutibilmente dovrebbe essere titolare nel nostro Paese, non foss’altro che per il suo indiscutibile radicamento portato in dote al Pdl. La progettualità sociale, economica e statuale è stato, senza ombra di dubbio, uno dei punti di forza della destra politica: sarebbe esiziale per i destini di tutto il Pdl se tale componente venisse emarginata per responsabilità soprattutto di chi da destra proviene o ad essa è pervenuto lungo un cammino impervio che quindici anni fa lo condusse a Fiuggi dove non si passarono banalmente le acque, ma si diede vita ad un movimento che non ha concluso la sua parabola, come pure qualcuno ritiene. Semmai esso si è inverato – o cerca ancora di farlo – in una “forma” politica più ampia rispondente alla necessità dell’incontro con altre sensibilità.

Se al momento è difficile dire quali connotazioni assumerà il partito di Fini (accreditato come scrivono alcuni giornali delle simpatie di tanti intellettuali “irregolari”), ancora in fase di allestimento, si può e di deve ipotizzare che la destra del Pdl non può che caratterizzarsi come parte di un tutto al fine di offrire al partito alla cui nascita ha contribuito, credendo forse prima degli altri nella necessità del soggetto unitario, il suo apporto che arricchisce l’esperienza maturata dall’incontro tra le culture liberale, socialista, cattolica e riformista.

Le derivazioni dalla cultura nazionale e statuale (non statalista, sia ben chiaro) sono identificabili nella lotta alla partitocrazia, nell’opzione presidenzialista quale esito più immediato e riconoscibile della partecipazione, nel solidarismo, nella rivendicazione del primato dell’identità nazionale e nel sovranismo. Tutto questo, se come abbiamo verificato, è già compatibile con le sensibilità ritrovatesi nel Pdl, ma per motivi vari non sempre è stato possibile calarlo nelle politiche di governo, mi chiedo se possa conciliarlo, qualora Fli voglia riprenderlo e rilanciarlo, con le ventilate congiunzioni elettorali (di là da venire, sia chiaro) con Rutelli e Casini al fine di creare un “centro” o un terzo polo che non verrebbe visto male nella prospettiva di una santa alleanza anti-berlusconiana perfino dall’agonizzante Pd che avrebbe addirittura offerto la premiership al leader dell’Udc.

E’ di tutta evidenza, comunque, che il partito di Fini si presenterà, nel tentativo di sottrarre consensi  Pdl, come radicato nella destra e legittimo erede della sua storia. Bisognerà vedere di che cosa si tratterà. Senza pregiudizi, naturalmente, ma neppure lasciando che tutto trascorra nell’indifferenza minimizzando la portata dell’operazione. Fli potrà, per essere chiari, qualificarsi come meglio crede, ma si deve sapere (e farlo sapere è compito precipuo degli alleati-antagonisti) che comunque, per quanto la modernizzazione del linguaggio e dell’espressione politica prevedano adeguamenti oggettivi, vi sono principi ai quali non si può derogare a meno di non voler creare qualche cosa d’altro e chiamarlo per giunta con un nome che poco vi si attaglia. La questione delle alleanze, al riguardo, è dirimente. Dunque, non resta che aspettare.

L’attesa, tuttavia, non deve significare inerzia. Il Pdl può anche consolarsi al momento apprendendo che Fli vale elettoralmente il 4%. E’ un dato che non significa niente, posto che il partito ancora non c’è, l’impegno diretto del presidente della Camera non si è manifestato, la campagna elettorale non è neppure cominciata. Dunque, la percentuale  può soltanto lievitare a meno che il Pdl non si faccia erodere dislocandosi sul territorio in maniera diversa e più incisiva di quanto ha fatto finora, attivando una partecipazione scadente qualitativamente e quantitativamente, poiché gli organigrammi sono stati disegnati dall’alto ed i dirigenti locali cooptati dal vertice; inoltre  ponendo la questione identitaria al centro della sua riflessione: doveva essere fatto prima, non è male riparare oggi.

Insomma, Fli è un competitore che non va sottovalutato. Ed il realismo sconsiglia di liquidare ciò che può infastidire con una scrollata di spalle. Se accadesse le conseguenze potrebbero essere irreparabili. Perciò, la destra del Pdl e nel Pdl ha un compito che forse non è stato ancora ben compreso nel marasma in cui la maggioranza è venuta a trovarsi: riproporsi come motore di una rinascita culturale, promuovendo quelle “contaminazioni” comprensibili e non velleitarie dalle quali può scaturire una nuova identità. Insomma, bisogna riaprire la fabbrica delle idee per superare la crisi, cavalcarla se è il caso, con l’obiettivo di offrire un partito nuovo e non soltanto un nuovo partito all’attenzione dei cittadini che, si spera, non esaurirà la sua funzione catalizzatrice nel volgere di una legislatura, ma – se lo vorrà – potrà essere il nocciolo duro di un grande partito conservatore come mai in Italia c’è stato. La destra ha le carte in regole per dare il proprio contributo.