Se Obama avesse perso in Italia, sarebbe già caduto il governo

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Se Obama avesse perso in Italia, sarebbe già caduto il governo

05 Novembre 2010

Decisamente, gli Stati Uniti d’America non sono l’Italia. Da noi si eleggono governi pare proprio per il mero gusto di vilipenderli, denigrarli, ostacolarli in tutti i modi e quindi abbatterli il più presto possibile, e i partiti, nonostante i programmi e le basi ideologiche precise che li fondano, si sfrangiano volentieri in mille rivoli, il tutto in pendenza di uno Stato burocratico pesantissimo e assai invasivo.

Oltreoceano, invece, i governi governano sempre, le opposizioni fanno il proprio mestiere fino a scadenza naturale di mandato, l’architettura istituzionale impedisce le crisi di governo (che non ci sono mai, mentre da noi non c’è mai un governo che arrivi a scadenza naturale e che la volta sola che lo fa si presenta comunque alla fine con assetto diverso da quello con cui aveva preso l’avvio), i partiti restano sempre se stessi, le defezioni sono casi singoli e rari, nessuno s’inventa “appoggi esterni” o gruppi parlamentari autonomi in corso d’opera, e questo nonostante il fatto che là i partiti siano “più leggeri” e al proprio interno variegati che mai, il tutto in presenza di un apparato burocratico statale comunque ridotto. Sarà per questo che certe logiche statunitensi ci sfuggono e per sempre ci sfuggiranno, per diversità (deficit?) di cultura istituzionale, ethos politico, senso delle cose e, diciamocelo, sentimento dell’interesse nazionale.

Prendi la vittoria di enorme margine conseguita dal Partito Repubblicano nelle elezioni di metà mandato di martedì 2 novembre. Per contestato, detestato e avversato (persino talora a parole grosse) che sia e sia stato il presidente Barack Hussein Obama (e la sua “giunta” liberal), nessuno (lunatici a parte, ma quelli ci sono sempre e mai contano sul serio) ha mai osato mettere in dubbio la legittimità della sua elezione, l’investitura popolare che lo ha intronizzato alla Casa Bianca nel 2008, la piena titolarità a svolgere il compito per il quale nettissimamente le urne lo hanno allora scelto. Idem dicasi per il Congresso (tutta la Camera dei deputati e, come sempre, un terzo del Senato) eletto assieme a lui in quello stesso momento e, certo, forte dell’effetto traino esercitato in quel frangente da Obama in persona.

Motivo per cui la bocciatura odierna della linea fin qui seguita dalle istituzioni statunitensi – l’esecutivo e l’organo legislativo uniti da comune destino, oltre che da “solidarietà nazionale” di foggia liberal che più liberal non si può – non potrebbe risultare più chiara, urgente e cogente di così. Quanto, cioè, per due anni il mandato popolare “per fare” che le urne hanno consegnato a Obama e ai suoi è stato netto, tanto ora lo è il giudizio negativo proferito dal popolo su quanto Obama e i suoi “non hanno fatto”, “hanno fatto male” o addirittura “molto han fatto, ahimè”. Continua a stupirci, qualcuno spalanca gli occhioni, ma il bello della faccenda è che negli Stati Uniti tutto avviene civilmente, ordinatamente, nei tempi e nei modi stabiliti da che il Paese è Paese e – la cosa non potrà che riempire di gioia anche le Sinistre, nevvero? – d-e-m-o-c-r-a-t-i-c-a-m-e-n-t-e.

E adesso, però, cosa accadrà? Premesso che nessuno possiede la sfera di cristallo per divinare il futuro e che tutte le previsioni sembrano essere fatte apposta per essere smentite, appare del tutto evidente almeno che ciò che è stato fin qui fatto va disfatto. D-e-m-o-c-r-a-t-i-c-a-m-e-n-t-e, questo è sempre il bello. Non va la ricetta fin qui proposta per debellare la crisi economica che sarà pure globale ma che ha la testa negli Stati Uniti. Non va la politica del lavoro fin qui seguita. Non va la misura oppressiva dello Stato che schiaccia la società. Non va il carico fiscale che pesa sui cittadini. Non va la nebbia che avvolge la politica estera del Paese. Non va la retorica bolsa adottata su temi riguardanti l’energia e l’ambiente. Non va il giacobinismo pervicace con cui (ricordate l’Obama fresco di elezioni che promise d’iniziare subito cancellando “duecento” provvisioni di legge dell’era Bush, un numero enorme delle quali riguardava temi eticamente sensibili”?) Casa Bianca e Congresso hanno per due anni calpestato il senso morale degli americani. Una parte di loro, ci si affretterà a correggere. Da quanto dicono le urne del 2 novembre parrebbe per lo meno la metà più uno dei votanti, il che in d-e-m-o-c-r-a-z-i-a non sono mica bruscolini.

Una cosa da cui si potrebbe per esempio partire subito è l’estensione temporale degli sgravi fiscali voluti nel 2001 e nel 2003 dal presidente George W. Bush jr. Scadranno il 31 dicembre 2010. Il nuovo Congresso, dove la Camera è a maggioranza Repubblicana, s’insedierà il 3 gennaio 2011. Ecco, se Obama e i suoi non vogliono giocarsi anche gli ultimi seggi rimasti loro oggi (visto che fra due anni si rivoterà daccapo, e non solo per il Congresso) converrà che patteggino. Perché il bandolo dei prossimi due anni, di lunga, lunghissima campagna elettorale con la mente e il cuore rivolti alla Casa Bianca, e per molti versi già iniziata, è questo. Come i neoeletti Repubblicani sapranno amministrare il trionfo di oggi.

Sarà come muoversi in un campo minato. Ogni passo falso costerà lacrime e sangue. Ma se tra i Repubblicani prevarranno sagacia e strategia il 2012 potrebbe riservare sorprese più che rosee. Quale sagacia e quale strategia? Be’, che la campagna elettorale del 2010 sia stata uno scontro frontale tra Repubblicani e Democratici è certo; che lo sia stato anche tra certi Repubblicani e certi altri Repubblicani pure, persino di più. Mai (forse) come quest’anno le primarie svolte dal Partito Repubblicano sono servite a selezionare il personale politico.

Il movimentismo dei “Tea Party” è stato il catalizzatore. Sono stati i “Tea Party” a tenere conficcate le spine nel fianco, destro, del Partito Repubblicano per mesi e mesi. Sono stati i “Tea Party” a bocciare sonoramente certi Repubblicani, promuovendone certi altri e talora persino inventandosene alcuni. Sono stati i “Tea Party” a creare una “terza forza” di popolo che ha mostrato i muscoli ai Repubblicani tanto quanto si è mostrata disposta a scendere al loro fianco a patto di avere posti di comando. E visto che in numerosi casi quei posti di comando i “Tea Party” se li erano sacrosantamente guadagnati in modo d-e-m-o-c-r-a-t-i-c-o, la cosa non ha mai dato davvero scandalo. Insomma, dice bene il politologo Edward Luttwak (che intanto pensa pure all’Italia), la vittoria Repubblicana di oggi è decisamente made in Tea Party.

Certo, il 2 novembre non tutti i candidati schierati dai “Tea Party” sono stati eletti, ma resta che la loro sconfitta per mano Democratica non può cancellare il fatto che la metà più uno di chi alle primarie ha scelto di votare Repubblicano ha scelto loro e non altri. Scusate, d-e-m-o-c-r-a-t-i-c-a-m-e-n-t-e. Ora, l’establishment del Partito Repubblicano una realtà così non potrà ignorarla. Né i “Tea Party” potranno ignorare il fatto che alcuni dei Repubblicani eletti dal popolo americano il 2 novembre siano dei loro, altri no, altri abbiano vinto battendo proprio dei candidati del “Tea Party”; e che fra i Repubblicani eletti ma non appartenenti ai “Tea Party” alcuni siano dei “Tea Party” acerrimi nemici, per ragioni ideologiche, mentre altri solo diversamente conservatori dai “Tea Party”.

Il personale eletto con il sostengo dei “Tea Party”, cioè, non dovrà scendere a quei compromessi per mettere fine ai quali ha scelto di entrare nell’arena politica sfidando appunto nientemeno che il gotha del Partito Repubblicano, anche perché metterebbe immediatamente la parola “fine” a qualsiasi sogno politico futuro; ma dovrà imparare a lavorare di cesello non transigendo di uno iota sulle cose che contano e invece imparando i tatticismi là dove la realtà (e la coscienza) lo consentono. Non per intrupparsi in quei ranghi per sciogliere i quali il “Tea Party Movement” è nato, ma per trasformare il significativo successo ottenuto oggi in una trasformazione totale del Partito Repubblicano. Che è e resta l’obiettivo palese, e virtuoso, dei “Tea Party”.

Il Congresso eletto il 2 novembre non sarà il “solito” Congresso in cui la Camera è a maggioranza Repubblicana. La presenza lì dei “Tea Party” si farà sentire e trasformerà in modo evidente “il ‘solito’ Congresso in cui la Camera è a maggioranza Repubblicana”. Allo stesso tempo il movimento duro e puro che finora ha goduto dell’incredibile vantaggio di stare alla porta e potersi quindi permettere praticamente di tutto dovrà lasciarsi docilmente plasmare dalle meccaniche con cui da duecento anni opera il Congresso degli Stati Uniti. Tranquilli: sono dinamiche buone, migliori di molte altre. Consentono per esempio di fare quotidianamente politica attiva senza rinunciare agl’ideali, anzi portandoli dentro, inondandone le burocrazie. Questo, non altro, è il “sogno americano”.

Se il movimento conservatore grassroots saprà studiare le situazioni momento per momento, soppesando ogni elemento con la calma olimpica concessa in serenità da un sorso di buon tè, di quel sublimo infuso esso potrà sfruttare tutta la carica energetica. E in due anni tesaurizzare onde costruire un’offensiva fredda e inesorabile che potrebbe sul serio portare a conclusione un ciclo poltico-culturale lungo mezzo secolo. Lee Edwards (un veterano, uno dei padri dell’attivismo conservatore ragionato sin dagli anni Sessanta, oggi Distinguished Fellow in Conservative Thought alla Heritage Foundation di Washington che lo definisce la "in-house authority" sul conservatorismo) afferma che il conservatorismo è il movimento che ha rifatto gli Stati Uniti (cfr. il suo The Conservative Revolution: The Movement That Remade America, Regnery, Washington 1999).

Li ha rifatti nel senso che li ha riportati in sé, che ha disfatto quanto di male era stato contro di loro fatto, proprio come oggi il nuovo, 112° Congresso eletto disfa ciò che male han fatto Obama e i suoi. Una rivoluzione nel vero senso: ritorno all’origine, restaurazione post deragliamento. Si chiama “Tea Party”: è il passato, la storia del Paese, e promette un futuro migliore. Sono questi i “progressisti” che servono. Voglia il Cielo che nei prossimi due anni i neoeletti di oggi sostenuti dai “Tea Party” sappiano farsi sempre più candidi come colombe e astuti come serpenti.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute [www.columbiainstitute.it] e direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]