Se Obama credesse nell’America avrebbe già vinto la guerra in Libia
25 Agosto 2011
Si potrebbe dire che Obama si stia muovendo verso qualcosa che assomiglia molto a una dottrina. Uno dei suoi consiglieri ha definito le sue azioni sulla Libia “leading from behind”, “guidare da dietro le quinte” — Ryan Lizza, the New Yorker, 2 Maggio.
Per dovere di precisione, “guidare da dietro le quinte” è uno stile, non una dottrina. Le dottrine hanno a che fare con idee, e poiché non ve sono di discernibili che diano un significato alla politica estera di Obama – il meticoloso articolo sugli ultimi due anni di politica estera scritto da Lizza mostra quanto sia essa mutevole, confusa e improvvisata – ci dovremmo accontentare.
Questa definizione ha però un merito: detiene un grande potere descrittivo che va dalla scioccante passività del presidente Obama in occasione della Rivoluzione Verde del 2009 ai suoi tentennamenti sulla Libia, gli stessi che lo hanno visto assumere delle decisioni all’ultimo momento, per poi passare la palla a una coalizione riottosa, che ha portato all’attuale impasse di sangue. Quella di Obama è stata una politica estera fatta d’esitazione, d’indugi e d’indecisione, contraddistinta da lamentevoli appelli a una (illusoria) “comunità internazionale”, per fare ciò che solo l’America può fare.
Implicite in quello stile, assicura questo consigliere di Obama, ci sono delle idee vere. Si tratta di “due convincimenti taciti”, spiega Lizza. “Il primo è che il potere relativo degli Stati Uniti stia diminuendo, in un momento in cui paesi rivali come la Cina sono in ascesa, e che gli Usa sono vituperati in molte parti del mondo”. Incredibile. Queste sono le ragioni che spingono Obama a diminuire la presenza americana, la sua reputazione e la sua leadership nel mondo?
Prendiamo in considerazione la prima asserzione: noi dobbiamo “guidare da dietro le quinte” perché il potere relativo degli Stati Uniti sta diminuendo. Anche se si accettasse la premessa, la quale è un completo non sequitur (nella Logica è un errore di ragionamento, N.d.T.). Che cosa c’entra il Pil in crescita della Cina con lo scarica barile degli Stati Uniti sulla Libia, con gli errori di analisi sull’Iran o con l’imbonimento della Siria?
Vero, la Cina sta guadagnando terreno. Però si dica anche che è l’unica potenza il cui aumento in spese militari mostri una qualche forma di significatività. La Russia si sta rimettendo da livelli militari così bassi da farsi sentire a malapena a livello globale. E il potere militare dell’Europa è in vero declino (si veda la performance europea – salvo quella britannica – in Afghanistan e le sue attuali disavventure in Libia).
Secondo, la sfida militare cinese è ancora esclusivamente di portata regionale. Avrebbe al massimo delle ripercussioni di guerra su Taiwan. Ha un effetto zero su qualsiasi cosa che vada oltre le coste della Cina. La Cina non ha una flotta d’alto mare. Non ha basi all’estero. Non può proiettare il proprio potere a livello globale. Potrà in futuro – ma in base a quale logica ciò dovrebbe paralizzarci oggi?
Seconda asserzione: dobbiamo “guidare da dietro le quinte” perché siamo vituperati. Mi si dica cortesemente quand’è che non lo siamo stati? Durante la guerra del Vietnam? Oppure prima, sotto Eisenhower? Lo stesso periodo in cui il suo vice-presidente fu spedito in un viaggio delle buone intenzioni in America Latina e fu riempito di sputi, minacciato da folle inferocite e costretto a interrompere il suo viaggio. O forse più tardi, sotto il nostro Reagan benedetto? Gli anni di Reagan furono segnati da vaste proteste nelle piazze dei nostri alleati più stretti nelle quali si accusava l’America di essere una minaccia guerrafondaia, impegnata a portare il mondo verso un inverno nucleare.
“Obama è divenuto adulto politicamente”, ci spiega Lizza, “in un’era post-Guerra Fredda, un tempo in cui la non contendibilità del potere dell’America ha creato un vasto risentimento nei suoi confronti”. Ora il punto di tutta questa faccenda è che però il mondo non è iniziato con la presa di coscienza di Barack Obama. I risentimenti della Guerra Fredda sono ancora profondi.
E’ il destino di qualsiasi superpotenza assertiva di essere invidiata, denunciata, biasimata per qualsiasi cosa accada su questo mondo. Nulla è cambiato in questo senso. E poi, per essere un paese così profondamente vituperato, si spieghi per quale motivo, durante le massicce manifestazioni in Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Giordania e Siria, le manifestazioni di anti-americanismo sono state una tale rarità?
Andiamo a vedere allora chi davvero vitupera ‘l’egemone’ America. E’ il mondo di riferimento del presidente, quello in cui Obama è vissuto e che lo ha plasmato intellettualmente: quello delle elites univeritarie; i suoi salotti buoni versione ‘Hyde Park’ (inclusi i suoi amici da non menzionare, William Ayers e Bernardine Dohrn); la chiesa che ha frequentato per vent’anni, ove eccheggiano ancora sermoni di una virulenza tanto anti-americana che a confronto quelli pronunciati a squarcia gola nelle manifestazioni delle piazze arabe sembrano richieste di indulgenza.
E’ l’elites progressista che in realtà vitupera il colosso americano e che devotamente ne desidera un ridimensionamento. “Guidare da dietro le quinte” – ovvero diminuire la reputazione e l’assertività dell’America a livello globale – è una reazione alla loro visione dell’America, non a quella del mondo.
Altri presidenti si sono confrontati con l’anti-americanismo: però invece di etichettarlo come prova provata della malignità dell’America, hanno creduto – come fanno d’altronde molti americani – che esso fosse la prova provata della giustezza della nostra causa e della nobiltà delle nostre intenzioni. Obama crede che l’anti-americanismo sia un verdetto sull’idoneità dell’America alla leadership. Io penso che “guidare da dietro le quinte” sia piuttosto un verdetto sull’idoneità di Obama alla leadership.
Guidare da dietro le quinte non è affatto guidare. In realtà, è abdicare. Senza contare che si tratta di un ossimoro. Ciononostante un giornalista schierato, che dà voce a un consigliere di Obama, la eleva a dottrina. Senza dubbio il presidente ne sarà lusingato. Noi al massimo possiamo rimanerci di stucco.
Tratto dal Washington Post del 29 Aprile 2011
Traduzione di Edoardo Ferrazzani