Se Obama tassa i pneumatici cinesi frenerà il libero commercio
28 Settembre 2009
di redazione
Se c’è una cosa di cui uno può star sicuro, è che quando un governo pospone un annuncio fino alle nove di sera non è orgoglioso di quello che sta facendo. Si tratta di una delle pochissime cose comprensibili nella decisione di Obama di non rispettare l’impegno che lui, insieme ad altri leader del G-20, aveva ribadito lo scorso aprile: evitare misure protezionistiche in un momento difficile dell’economia.
Da ogni altro punto di vista, la decisione di imporre una tassa del 35% sull’importazione di pneumatici cinesi appare come un gigantesco abbaglio, che conferma i peggiori timori circa l’incapacità del presidente di opporsi agli interessi particolari del suo partito e mantenere una posizione equilibrata a ferma durante la sua permanenza alla Casa Bianca.
Questo giornale ha appoggiato Obama nelle elezioni dell’anno scorso, anche perché tra i suoi collaboratori figurava un numero sufficiente di moderati intelligenti. Dicevamo anche che l’eventuale successo della sua presidenza si sarebbe basato su due fattori: resuscitare l’economia, e portare le potenze emergenti a inquadrarsi nell’ordine occidentale. Adesso ha compromesso entrambi gli obiettivi.
Profondamente “pneoccupato”. L’anno scorso, il timore era che Obama si sarebbe arreso all’enorme pressione protezionistica che arrivava dal Congresso. Introducendo questo nuovo dazio, Obama ha voluto compiacere un singolo sindacato, che neanche rappresenta la maggioranza dei lavoratori dell’industria di pneumatici americana; ed è andato contro gli interessi di chiunque altro. I produttori di pneumatici americani, che in gran parte hanno cessato di produrre radiali di fascia bassa in territorio nazionale preferendo importarli (spesso da joint-venture operanti indovinate dove), non si sono schierati per l’approvazione di questo aiuto tariffario. I consumatori dovranno pagare di più. Le attività dei garage e automobilistiche in generale subiranno contraccolpi. E nessuno può seriamente pensare che tutto ciò serva a salvare posti di lavoro in America: le ditte, semplicemente, continueranno a importare pneumatici economici da altri posti convenienti, come India e Brasile.
Si potrebbe pensare che questi dazi non siano una cosa poi così importante. In definitiva, si applicano soltanto a importazioni che l’anno scorso hanno totalizzato due miliardi di dollari, un giro d’affari che assai difficilmente può scatenare una grande guerra commerciale. Vero, la Cina ribolle di rabbia; ma la Cina è maestra in reazioni teatrali e esagerate. Guardando al concreto, finora la sua unica risposta è stata l’annuncio di un’investigazione anti-dumping sulle esportazioni di pollo e ricambi automobilistici americani. Tutta la faccenda potrebbe placarsi spontaneamente, come avvenne nel 2002 con i dazi selettivi sull’acciaio introdotti da George W. Bush (assai peggiori di quelli di Obama sui pneumatici). I presidenti, dopo tutto, ogni tanto devono gettare un bel pezzo di carne ai propri sostenitori: Obama ha bisogno di avere i sindacati al suo fianco per portare avanti la riforma sanitaria.
Sarebbe ingenuo da parte sua. Non soltanto perché tutti i lavoratori in ogni ramo della produzione che abbia sofferto della concorrenza cinese adesso si sentiranno imbaldanziti nel cercare una analoga forma di protezione da parte di un presidente che alla prima occasione si è arreso ai sindacati. La decisione sui pneumatici va inquadrata nel contesto di una catena di scelte minacciosamente protezionistiche iniziata a poche settimane dall’inizio della presidenza con l’enunciazione di quella brutta clausola del “buy american” negli appalti pubblici. Il presidente l’ha poi attenuata un po’, ma non è stato abbastanza audace da ripudiarla. Poi, Obama non ha fiatato quando il Congresso ha bocciato un progetto che prevedeva l’apertura della frontiera agli autotrasportatori messicani, come promesso nel NAFTA (il trattato di libero commercio nelle Americhe, ndt) del 1994.
Oltre a questi peccati d’azione, ci sono i peccati di omissione: il presidente non ha fatto assolutamente nulla per portare avanti il pacchetto di misure per il libero commercio con Colombia, Panama e Corea del Sud che giace al Congresso; eppure si tratta di tre fedeli alleati degli stati Uniti, che meriterebbero un trattamento assai migliore. E molto più grave di tutto questo, perché reca danno a tutto il mondo, è il non aver escogitato nulla per far tornare in vita le trattative del Doha round. Le tariffe di Bush, al pari delle limitazioni imposte durante l’era di Reagan alle automobili e ai semiconduttori giapponesi, arrivavano da un presidente sostanzialmente consacrato al mercato libero. Al contrario, sembrerebbe, di Obama.
E’ necessario che l’America faccia da guida. Il sistema di commercio globale ha molti nemici, ma negli ultimi tempi sembra che l’uomo della Casa Bianca possa venir considerato come il loro campione. Come promotrice della globalizzazione, l’America ha guadagnato immensamente in termini di potenza e prestigio, ma la straordinaria esplosione di crescita provocata da questo processo ha anche sollevato in pochi decenni centinaia di milioni di persone dalla povertà, e offerto prezzi più bassi ai consumatori di ogni parte del mondo.
La recessione globale minaccia di disfare parte di tutto ciò, visto che un paese dopo l’altro cade nella tentazione di sovvenzionare di qua e proteggere di là. Il commercio mondiale, probabilmente, calerà del 10% nel 2009, e un rapporto del londinese Global Trade Alert avverte che, in media, all’interno del G-20 c’è stata una marcia indietro sugli impegni contro il protezionismo una volta ogni tre giorni, a partire dalla sua fondazione. Adesso, per Obama, ergersi a paladino della causa “no al protezionismo” al G-20 di Pittsburgh, apparirebbe ridicolo. Però, se non è l’America a dare l’esempio, nessun altro può realisticamente darlo.
Scemo e più scemo. La potenziale ricaduta di questo errore di Obama non è limitata al commercio. L’evidenza di un presidente debole che viene spinto a sinistra potrebbe portare gli investitori a preoccuparsi della fermezza che poi saprà dimostrare quando si tratterà di governare l’enorme debito che va accumulandosi; timori che potrebbero spaventare i compratori di bond che finanziano quel debito. E all’orizzonte, naturalmente, ci sono i cinesi. Il peggioramento delle relazioni commerciali tra il maggior debitore del mondo e il maggior creditore del mondo è cosa che toglierebbe il sonno a qualsiasi banchiere.
Ma l’America ha bisogno della Cina per molto di più che per i buoni del tesoro. Tutte le speranze di raggiungere un accordo sul clima al vertice di Copenaghen, a dicembre, dipendono da una stretta cooperazione tra quei due paesi. Così anche i negoziati sul nucleare della Corea del nord. Poi c’è l’Iran: l’America è incline a promuovere un nuovo giro di sanzioni internazionali per forzarlo ad abbandonare il programma nucleare, ma la Cina potrebbe bloccare tutto con il veto di cui è depositaria in sede Onu.
Considerate le leggi del commercio, Obama ha la piena facoltà di rifiutare la raccomandazione di imporre le tariffe doganali sui pneumatici cinesi, in considerazione di superiori interessi nazionali tanto economici quanto di sicurezza. Dato quel che è in gioco, una decisione diversa da parte sua sarebbe qualificabile come un atto di vandalismo.
Tratto da Economist
Traduzione di Enrico De Simone