Se Obama vuole un nuovo Afghanistan deve ispirarsi all’Iraq di Bush

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Se Obama vuole un nuovo Afghanistan deve ispirarsi all’Iraq di Bush

12 Marzo 2010

Il successo delle recenti elezioni irachene è dovuto anche all’efficacia della strategia del surge messa in campo da Petraeus e Bush, e dall’Iraq si possono trarre diverse lezioni su come condurre una campagna di controguerriglia vincente. Le recenti elezioni in Iraq sono state un successo sotto diversi punti di vista. Il dato di fondo è che si sono svolte elezioni pacifiche e democratiche in un Paese che ha vissuto l’abbattimento del regime di Saddam Hussein nel 2003 e che nel 2006 sembrava sprofondare nella guerra civile. Gli aspetti principali di questo successo sono almeno quattro.

In primo luogo l’alta affluenza: circa il 62 per cento degli aventi diritto ha votato, nonostante il pericolo concreto di attentati terroristici. Certo, la percentuale è lontana da quel 100 per cento di partecipazione sbandierato negli anni della dittatura, ma essendo il dato di oggi reale e riferito ad una competizione aperta, con circa 6.200 candidati appartenenti a 86 gruppi politici, rappresenta un grande successo. In particolare, è estremamente positiva la significativa partecipazione al voto anche nelle aree sunnite che nel 2005 avevano boicottato le elezioni, un passo importante sulla strada della riconciliazione nazionale.

Il secondo elemento di successo è stato il livello di violenza relativamente basso. Certo, ci sono state 38 vittime di attentati nel weekend elettorale, ma se si pensa che nel 2006 morivano ammazzati in media 95 civili al giorno(1), numero che si è ridotto del 92 per cento nel 2009, ci si rende conto dei progressi fatti nel garantire la sicurezza interna.

Il terzo aspetto positivo delle ultime elezioni è che la sicurezza del processo elettorale è stata gestita direttamente dalla polizia e dall’esercito iracheno, mentre in passato erano i soldati americani, britannici o italiani a presidiare strade e seggi. L’azione di 665.000 effettivi iracheni ha garantito una maggiore sicurezza e conferito più legittimità al processo elettorale rispetto a quello che avrebbero potuto fare, e che fecero nel 2005, le truppe straniere percepite giocoforza come estranee dalla popolazione.

La quarta caratteristica positiva, già messa in luce da diversi commentatori, è stata la formazione di coalizioni elettorali interconfessionali, ad esempio quelle guidate rispettivamente da Maliki e Allawi, che hanno messo insieme sunniti e sciiti. Il graduale e progressivo passaggio da un voto di appartenenza confessionale, che caratterizzò le prime elezioni del 2005, a uno basato sulla personalità del leader, sulle proposte del partito o sulle sue clientele, rappresenta un elemento stabilizzante in quanto permette un negoziato politico per soddisfare i vari interessi in gioco e il cambiamento pacifico delle maggioranza di governo.

In altre parole, la prevalenza del voto “politico” su quello “settario” impedisce una guerra civile tra gruppi rigidamente divisi su basi etnico-religiose, e favorisce invece quella pacifica dinamica propria di un sistema pluralista e democratico. Se come sembra i partiti interconfessionali e “laici” otterranno un buon risultato in termini di seggi, e nessuna coalizione avrà da la maggioranza assoluta in parlamento, il futuro governo di coalizione avrà un impronta moderata e pragmatica in grado di consolidare la transizione democratica in corso.

Ognuno dei quattro elementi del successo delle elezioni è, in una certa misura, il frutto della strategia di controguerriglia elaborata da Petraeus e adottata dall’amministrazione Bush dalla fine del 2006, conosciuta come “surge”.

Uno dei pilastri della strategia americana era l’accordo politico con una parte della guerriglia sunnita, per convincerla ad abbandonare le armi in cambio di un mix di incentivi che includono il pagamento diretto di stipendi, il miglioramento dei servizi (acqua, elettricità, ecc) nelle loro province, e il parziale reintegro dei miliziani nelle forze di sicurezza e nell’apparato statale iracheno. Ad Anbar, e in seguito a Baghdad e nelle altre province sunnite, questo sforzo ha dato vita ai “Sons of Iraq”, milizie locali sunnite che hanno aiutato gli americani a cacciare Al Qaeda e ora sono in parte reintegrate nello stato iracheno e in parte ancora sul libro paga degli Stati Uniti. L’accordo con questa galassia di clan e gruppi sunniti è stato determinante al fine di ottenere sia la loro partecipazione alle ultime elezioni, viste come un modo per avere voce nel governo centrale, sia la drastica riduzione della violenza nelle loro province. 

Un altro pilastro della strategia americana era l’investimento massiccio nella formazione, addestramento ed equipaggiamento delle forze di sicurezza irachene. L’effettivo dispiegamento di 665.000 tra militari e poliziotti iracheni, cioè il quadruplo delle forze straniere presenti in Iraq nel 2006, ha permesso un controllo del territorio più capillare, e più efficace in quanto condotto da chi quel territorio lo conosce perché ci vive. Ciò ha contribuito in modo determinante alla drastica riduzione degli attacchi condotti dalla guerriglia, con conseguente crollo delle vittime civili, e di quelle militari sia americane  (-80 per cento nel 2009 rispetto al 2006) sia irachene (-75 per cento).

Il terzo pilastro della strategia americana era il sostengo alla capacità dello stato iracheno di garantire i servizi essenziali alla popolazione: dal 2006 al 2009 il budget statale è triplicato, l’erogazione dell’elettricità è aumentata del 50 per cento, l’accesso all’acqua e alle cure ospedaliere è raddoppiato, il numero di giudici in servizio è aumentato del 50 per cento. Questi forti progressi erano volti a conquistare il sostegno della popolazione per il nuovo stato allontanandola dalla guerriglia, e hanno avuto un duplice impatto sulle elezioni. Da un lato, la percezione che lo stato ha fatto e può fare qualcosa per migliorare le concrete condizioni di vita incentiva la partecipazione al voto, al fine di far andare avanti un sistema che inizia a funzionare. Allo stesso tempo, ha progressivamente spostato l’attenzione degli elettori sui contenuti e gli obiettivi della politica in termini di servizi, occupazione, sicurezza, ecc, mettendo parzialmente in secondo piano l’appartenenza religiosa ed etnica. In altre parole, l’elettore vota un po’ di più in base a quello che il  candidato può fare di utile per lui e meno in base a come prega, un meccanismo basilare della democrazia che si è riflettuto nell’affermazione di partiti interconfessionali alle ultime elezioni irachene.

Infine, l’invio di 30.000 rinforzi americani senza una data prestabilita per il ritiro, deciso da Bush nel 2007 nonostante l’opposizione dei democratici e di gran parte dell’opinione pubblica domestica, per non parlare di quella europea, ha fornito le forze e la credibilità necessarie per il surge rendendolo vincente.

Una volta eletto Obama ha sostanzialmente seguito la strategia della precedente amministrazione, pur avendola in precedenza criticata, ed ha lasciato al generale Odierno, prima vice e poi successore di Petraeus al comando delle forze in Iraq, ampia autonomia nella gestione delle operazioni e del ritiro. Ritiro che non sarà completato entro l’estate 2010 come promesso da Obama in campagna elettorale, avendo seguito un ritmo più lento sulla base dei progressi sul terreno. Grazie a tali progressi, Obama ha potuto riportare a casa 37.000 soldati americani durante il suo primo anno da presidente, e ha definito le ultime elezioni una “pietra miliare” nella storia dell’Iraq. Ora è probabile che il ritiro americano proseguirà gradualmente lasciandosi alle spalle un paese che non è sprofondato nella guerra civile, non si è spaccato in tre, non è diventato una marionetta dell’Iran né l’ennesima dittatura militare araba, non ha seguito insomma nessuna delle previsioni catastrofiste tanto in voga negli anni scorsi.

L’Iraq è invece oggi un paese che si trova in uno stadio avanzato della sua transizione democratica, e che pur dovendo affrontare grandi problemi è relativamente stabile rispetto al contesto regionale, e che non è ostile all’Occidente. Non a caso Newsweek ha recentemente titolato “Victory at last – the emergence of a democratic Iraq”, e se gli anti-americani e i fan del politicamente corretto non vogliono capire il significato della parola “vittoria”, si può più prosaicamente spiegare loro che la strategia di controguerriglia di Petraeus e Bush è stata veramente efficace nello stabilizzare il paese.

Così efficace che è lecito domandarsi se alcuni suoi elementi siano applicabili con successo nell’altro teatro mediorientale in cui oggi sono impegnati centomila soldati della NATO e dei paesi partner. L’Afghanistan presenta evidenti ed enormi differenze con l’Iraq, dalla conformazione geografica alla composizione etnica, dalla secolare assenza di un forte potere centrale al disastro in termini di alfabetizzazione, infrastrutture, agricoltura, sanità, eccetera causato da anni di guerre e regime Talebano, e nessuno pensa di fare a Kabul un copia e incolla della strategia vincente a Baghdad.

Tuttavia, è difficile non notare come già ora si fa e si pianifica di fare in Afghanistan qualcosa fatto con successo in Iraq: raggiungere un accordo con una parte della guerriglia tramite incentivi economici; investire massicciamente nella formazione delle forze di sicurezza nazionali perché si facciano carico della sicurezza del paese; sostenere le capacità del governo afgano di erogare i servizi essenziali alla popolazione per conquistarne il consenso; inviare 30.000 soldati americani in più per mettere in campo le forze necessarie a realizzare la nuova strategia. Riconoscere che ci sono similitudini e differenze tra le due operazioni di controguerriglia aiuterebbe ad evitare drammatici errori strategici come quelli commessi in Iraq fino al 2006, e ad articolare la strategia in Afghanistan in base alla specifica realtà del paese.

Se è vero che oggi Obama e i governi occidentali vorrebbero che l’Afghanistan diventasse come l’Iraq, non fosse altro che per potersene andare con onore, ci sarebbero diverse lezioni da trarre dall’ultima vittoria ottenuta dalla giovane democrazia irachena, e dall’America di Bush che l’ha fatta nascere.

1) I dati utilizzati provengono prevalentemente dall’Iraqi Index elaborato dalla Brookings Institution di Washington, un prestigioso centro studi vicino al Partito Democratico che certo non può essere tacciato di simpatie per l’amministrazione Bush. Quando i fatti prevalgono sull’ideologia