Se parlare di Irap diventa una moda
03 Novembre 2009
Il tema dell’Irap continua a presenziare il banco del dibattito politico. Si fanno avanti suggerimenti, soluzioni, idee. Addirittura strappi politici in un’apologetica competizione alla ricerca disperata del “come” e del “quanto” necessari per eliminare il balzello alle imprese. La persistente attenzione sull’Irap, però, adesso non sembra (più) dettata dalla ricerca di una soluzione di politica economica utile al Paese, ma piuttosto dall’accaparrarsi il ruolo di paladini nei confronti del mondo produttivo senza un preciso perché. Infatti, nato sull’auspicabile misura a favore delle imprese per la ripresa economica, nelle ultime settimane il dibattito si è fatto sempre più serrato sul “dover a prescindere” della soppressione dell’Irap.
L’evoluzione della discussione, per ora, non ha prodotto risultati concreti, mentre ha esposto il Governo al severo rischio di perdersi in quello che si va delineando come un perverso gioco di ipocrisie. Gioco di ipocrisie perché diversi elementi del dibattito appaiono artificialmente creati ed alteranti, non si sa fino a che punto volutamente; ma certamente quanto basta per azzardare una strategia destabilizzante (vedi la questione Tremonti vice-premier, il neo comitato di politica economica del Pdl che ne è conseguito, o ancora lo sciopero della Camera indetto del Presidente Fini). Gioco perverso perché può minare l’obiettivo prioritario (finora preservato) della coesione sociale del Paese.
L’Irap è un’imposta molto discutibile. Ha del paradossale nella sua applicazione e, come è stato più volte detto e da parti diverse evidenziato, produce l’iniquo e aberrante risultato di tassare le imprese pure quando sono in perdita. Però, sollevare in questa stagione di crisi la questione dell’abrogazione dell’Irap puntando, se non esclusivamente, principalmente sugli aspetti legati a tale anomalia può essere fuorviante. Fuorviante per l’opinione pubblica e per le decisioni di politica economica. Fuorviante perché l’abrogazione dell’imposta finisce per essere propinata come una “correzione” necessaria alla discrasia di tassazione derivante dalla crisi: quasi a sostenere, dunque, che l’anomalia sia causata dalla crisi, quando invece rappresenta l’ibrido sistema “tassa-imposta” che è la tipicità (e la parte più odiata) del tributo regionale.
Prendiamo la voce del costo del lavoro. La voce che, insieme a quella degli interessi passivi, è da tutti portata a dimostrazione del “peccato originale” dell’Irap. L’imposta grava sul costo del lavoro (e sugli interessi) indipendentemente dal risultato economico dell’azienda (utile o perdita). Dunque – è stato argomentato – oggi l’impresa con dipendenti (quindi più “virtuosa” perché non è ricorsa a licenziamenti durante la crisi) risulta maggiormente penalizzata rispetto all’azienda che, invece, con la crisi ha lasciato a casa lavoratori (quindi più “spregiudicata”). Un simile discorso, per quanto toccante e penetrante, non corrisponde a verità. Non è la crisi a produrre l’anomalia di una ingiusta punizione dell’Irap, ma il sistema ibrido che governa l’imposta. Per chi tira i conti in azienda, l’assunzione di un dipendente si misura in termini di costo del lavoro comprendendo anche il 4,25% di Irap. Quando Tizio è stato assunto da impiegato con 40 mila euro di retribuzione, l’azienda ha preventivato un costo che non è rappresentato soltanto da quei 40 mila euro, ma dai 40 mila euro maggiorati di un 60% a titolo di altri oneri quali contributi Inps, premi assicurativi Inail, quota Tfr, contributo previdenza integrativa e quindi la “tassa” Irap. Pertanto, se la tale impresa – non esistono aziende “virtuose” e aziende “spregiudicate” ma soltanto “aziende” – ha conservato i posti di lavoro nonostante la crisi è stato perché così è convenuto nella consapevolezza di dover sopportare un costo, tra cui certamente è compresa la componente Irap; parimenti è stato per l’impresa che, invece, ha licenziato i lavoratori.
Il rischio dunque è questo: non essendo stata la crisi a produrre l’anomalia (ma il sistema ibrido che governa l’imposta), l’abrogazione dell’Irap si trasforma in una sorta di premio alle imprese. Non che ciò non sia legittimo; ma forse meno conveniente – è quello che va appurato con serenità – rispetto a misure alternative (che oggi, a dire il vero, tardano a farsi avanti). Il timore è che questo bonus fiscale possa finire per essere fine solo a se stesso, ove non venisse giustificato come misura necessaria al Paese e all’economia. Così, ci si rende conto che non è questione di politica del rigore o di politica dello sviluppo. Il grande assente, oggi, è purtroppo un disegno unitario e univoco sulle azioni da intraprendere per accelerare e sostenere la ripresa economica. Un’assenza che appare più evidente e sconcertante a confronto del disegno unitario ed univoco che il Governo ha adottato e portato avanti con decisione quando si è trattato di contrastare la crisi; e che, fino a prova contraria, ha dato risultati del tutto positivi.
Quanto all’Irap, allora, il problema non è dove cercare i soldi per finanziare la sua abrogazione (e peggio solo una riduzione), ma cercare di capire se realmente quest’intervento, con tutto l’impiego di risorse che richiede, sia nell’oggi utile (se sì anche: quanto?) alla ripresa economica, al sistema produttivo e al Paese. Solo il riconoscimento di tale convenienza riuscirebbe a giustificare un intervento così settoriale, nonché ad allontanare il rischio di una rottura con il mondo sindacale che si intravede all’orizzonte. Mondo da cui arrivano pressioni sempre più incalzanti per una medesima riduzione fiscale a favore dei lavoratori levando alto lo scudo dello sciopero generale.
L’attesa abrogazione dell’Irap fa parte del programma del Governo e non sarà certamente tradita. Si dovrà convenire, tuttavia, che l’eliminazione può rientrare solo in un progetto organico di riforma fiscale. Con questo bilancio pubblico e con una crisi economica (forse) alle spalle, il Governo non può permettersi di disperdere risorse e tesoretti, ma deve puntare a una politica economica per il Paese e che faccia da volano per l’economia. Non è questione di politica del rigore o politica dello sviluppo: è politica di prudenza e di coesione.
Il ministro dell’economia Tremonti non ha memoria corta: teme probabilmente di rinciampare nel default dei conti pubblici come accadde con il primo modulo di riforma fiscale del 2002. La riforma produsse un deficit aggiuntivo di 3,5 miliardi di euro in più rispetto ai 1,2 miliardi preventivati. Incespicare oggi in un simile errore costerebbe molto di più a tutti. Alle imprese, ai lavoratori e al Paese. Mentre il medico studia però, speriamo che il malato non muoia.