Se Renzi per allearsi con Grasso scarica la Lorenzin
15 Gennaio 2018
Ma dove va il più grande partito della sinistra italiana? Che progetto politico ha, oggi, il rottamatore di Rignano sull’Arno, e dove sta conducendo il suo partito? Nonostante il piglio decisionista e lo stile un po’ arrogante, Renzi in realtà è il prototipo dell’ondivago “indeciso a tutto”, e l’accordo tra il Pd e Piero Grasso su Nicola Zingaretti come candidato per il centrosinistra alla guida del Lazio ne è l’ennesima dimostrazione. Il segretario Pd ha cominciato come liquidatore della vecchia classe dirigente postcomunista, secondo lui fallimentare e incapace, ha continuato con l’ambizione di costruire un classico “partito pigliatutto”, o, come si diceva nel momento del suo massimo fulgore, un “partito della nazione”, e ha cercato di spostare al centro, se non a destra, l’asse ideologico del Pd. Per fare questo ha assecondato, se non spinto, la scissione della sinistra; ma ora si trova senza bussola, in una terra di nessuno, costretto, per evitare di perdere anche alle regionali, a inseguire Grasso (e l’odiato D’Alema).
L’alleanza ufficializzata ieri a Roma su Zingaretti è il sintomo di una forte difficoltà del Pd, costretto a sacrificare all’accordo con Liberi e Uguali la lista moderata, quella dei centristi più fedeli, che hanno ingoiato in parlamento tutti i rospi e che chiedono ora un minimo premio fedeltà, uno spazietto nell’aggregazione elettorale di sinistra. Il patto sul Lazio, infatti, come racconta la cronaca delle trattative, è stato saldato sull’esclusione della lista di Beatrice Lorenzin dalla futura coalizione locale. «Non vogliamo trasformisti, neppure nascosti dentro le liste civiche», sembra sia stato il diktat di Paolo Cento. E il Pd, a quanto pare, ha acconsentito.
Inevitabile l’irritazione dei centristi di Civica Popolare, da tempo pronti a sostenere il Pd a livello nazionale. Particolarmente furioso, dicono sia Lorenzo Dellai, fondatore della lista con il ministro della Salute, che definisce «surreale» la vicenda e minaccia di mettere in discussione l’alleanza alle politiche: «Per noi ora si aprono pesanti ed insuperabili questioni politiche, non siano una lista civetta “à la carte”». Ma è chiaro che la lista Lorenzin interessa assai poco al Pd, che sta cercando di recuperare a sinistra e di ritrovare almeno alle regionali unità di intenti con Liberi e Uguali. Si è visto anche in Lombardia, dove Grasso &company si sono rifiutati di appoggiare il candidato renziano Gori, mentre un Renzi conciliante e persino un po’ patetico insiteva nel definire Gori “più a sinistra di me”, cercando di togliere al suo candidato quella patente di moderato che evidentemente non lo aiuta. E si è visto nel comportamento di un vecchio volpone come Tabacci, che ha appoggiato la Bonino, abbandonando Dellai e giocandogli il brutto scherzo di sottrargli il simbolo, non certo per presunta “generosità democratica”, ma perché probabilmente ritiene la lista dell’ex radicale più appetibile, per Renzi, di quanto non sia la lista Lorenzin.
Al Nazareno non si scompongono, fingono, come sempre, che tutto possa tranquillamente risolversi. Resta da capire, tuttavia, quale sia il fine di questa strategia elettorale schizofrenica: perché scelte così poco coerenti e omogenee tra loro? Perché il Pd fatica così tanto a trovare il suo posto certo nello scacchiere delle alleanze elettorali piegandosi a quella strategia delle geometrie variabili che sa tanto di Prima Repubblica?
La risposta va probabilmente cercata nel fallimento di quel progetto che, prima con Renzi, poi con Gentiloni, ha spinto il Nazareno a cercare consensi al centro, talvolta persino a destra, piuttosto che a sinistra. Questa dannata voglia di reinventarsi come partito nazional-popolare, di fare patti con la destra, di ventilare un governo di larghe intese, è costata al Pd solo macerie.