Se Renzi va in Libia: guerra per noi, petrolio per gli altri
09 Marzo 2016
di Daniela Coli
L’uccisione dei due tecnici della Bonatti, le interviste del Corriere all’ambasciatore americano a Roma, per il quale l’Italia sarebbe pronta a fornire 5.000 militari per “rendere Tripoli un posto sicuro” col supporto dell’intelligence Usa, e quella al ministro degli Esteri di Tripoli, per il quale qualsiasi intervento in Libia deve essere concordato con Tripoli, altrimenti violeremmo la sovranità libica, dà l’idea delle difficoltà in cui si è cacciato il nostro Paese.
Per due anni il governo Renzi ha alimentato l’illusione di un piano Onu per un governo di unità nazionale libico, che avrebbe richiesto una missione internazionale a guida italiana. In realtà, dopo il 2011 abbiamo sempre saputo che Libia come l’avevamo conosciuta non sarebbe più esistita. Attualmente, il problema dell’Italia non è tanto una missione per combattere il terrorismo islamico, secondo la narrativa seguita dall’Afghanistan all’Iraq, ma, come scrive un esperto come Alberto Negri, di non essere esclusa dalla spartizione del petrolio libico.
In una Libia divisa in zone d’influenza, si spera che all’Italia venga assegnata la Tripolitania, alla Gran Bretagna la Cirenaica e alla Francia il Fezzan, però la situazione è più complessa. La Cirenaica, dove comanda il generale Haftar, l’uomo forte di Tobruk, sostenuto da egiziani, francesi e russi, e il Fezzan potrebbero andare alla Francia, presente dal 2014 in tutto il Sahel. Mentre l’Italia perdeva la Libia, la Francia è diventata una potenza in Africa. Ora è difficile che la Gran Bretagna, sempre polemica con la Françafrique, non voglia avere la sua parte di Libia, e potrebbe avere messo gli occhi sulla Tripolitania, il cui governo si appoggia a partiti dei Fratelli Musulmani, sostenuti dai britannici negli anni ’40 e negli anni ’50 contro Nasser.
Certo, gli Stati Uniti offrono sostegno d’intelligence all’Italia, perché hanno molti interessi e basi in Africa (Africom): il ruolo di guida della missione promesso all’Italia sarebbe però formale e l’Italia dovrebbe sobbarcarsi un gran carico di lavoro, spese, perdite di uomini e pericoli, per delle briciole. Difficile che gli Stati Uniti, che diedero l’ok per la no fly zone in Libia, sostengano l’Italia a svantaggio di Francia e Gran Bretagna, già presenti sul terreno in Libia con truppe e forze speciali. In politica contano i rapporti di forza e se l’Italia non fosse stata debole nel 2011 ai nostri alleati non sarebbe venuto in mente di farci le scarpe nella ex Jamaria.
Il governo Renzi dovrà, dunque, valutare bene i possibili obiettivi e i tanti rischi. Come ha osservato Paolo Mieli (Corriere della sera, 6 marzo), se ci ficchiamo nel ginepraio Libia, dovremmo rompere con Haftar, nemico dei fratelli musulmani di Tripoli, e quindi mettere in crisi l’alleanza con l’Egitto, dove l’Eni ha scoperto il grande giacimento di gas Zohr di cui ha avuto l’assegnamento dal governo egiziano. In questo momento non possiamo permetterci colpi di testa e l’importante è almeno non perdere ciò che abbiamo.
L’Italia ha perso molte posizioni e prestigio dai tempi in cui si era illusa di avere avuto dagli Stati Uniti un ruolo speciale in Nord Africa e Medio Oriente, dimenticandosi di non avere affatto mano libera (vedi la fine di Andreotti e Craxi) e di doversi allineare agli interessi statunitensi. Dopo la fine della prima repubblica e la riunificazione tedesca, l’Italia non ha più una strategia nel Mediterraneo e per questo Berlusconi s’imbarcò nella guerra in Iraq, da cui non abbiamo però ricavato granché.
Nel 2008 l’Italia aveva firmato con la Libia sette accordi economici e un trattato di partenariato, simile a quella tra Francia e Algeria. Nel 2011, per vari motivi, fu deciso da Hillary Clinton, Obama, Sarkozy e Cameron di distruggere la Libia di Gheddafi. Se l’Italia è stata trattata così dai suoi alleati è perché era debole. E se l’Italia è debole, è perché ha giocato male: inutile fare il solito vittimismo e imprecare contro i cattivi alleati che si approfittano di noi perché siamo deboli. Se perdiamo le partite è perché abbiamo squadre che non funzionano. Purtroppo, non siamo così machiavellici come crediamo.
Nel 1945, con un po’ di machiavellismo, abbiamo evitato la sorte della Germania. Abbiamo creduto di essere dei geni a capire che l’Europa sarebbe stata divisa tra americani e russi sovietici, ci siamo illusi che la Guerra Fredda sarebbe durata in eterno e avremmo continuato a erodere posizioni britanniche e francesi nel Mediterraneo. Poi nel 1989 ci siamo ritrovati dalla parte degli sconfitti e non siamo stati in grado di trovare una via d’uscita. Mentre nel 1989 la Germania ha stravinto e si è lanciata nel futuro, l’Italia è rimasta immobilizzata nella morsa del passato.
La vicenda Libia mostra la crisi dell’establishment italiano e tutti i limiti dell’operazione Renzi, che dovrebbe ricreare una nuova Dc, con opposizioni incapaci di vincere le elezioni. Ma non c’è più la Guerra Fredda. Lo ha spiegato pure Ian Bremmer dalle colonne del Corriere. Per l’Europa Renzi è troppo americano. I giornali tedeschi ricordano sempre a Renzi che in Europa non si fanno le primarie e che l’Italia non può avere una politica anti-austerity come quella di Obama, perché l’Italia non ha la Cina a comprarle il debito. Né Renzi se la cava meglio con i francesi, pure con i socialisti Hollande e Valls. Per non parlare con l’Uk, che vuole uscire dall’Ue o, comunque sempre meno Ue, mentre Renzi vuole addirittura gli Stati Uniti d’Europa e una Ue comunitaria, con una Germania che magari si carichi di una parte del debito italiano.
Quindi, l’Italia di Renzi si aggrappa all’amico americano, che però può soltanto usarla, darle qualche briciola. L’Italia è in crisi, ripiegata su stessa, ripete i riti del passato, non produce e non inventa niente di nuovo. Inutile buttarla sulla morale, la corruzione, il destino cinico e baro. La Libia dimostra che è necessaria un’alternativa seria a Renzi: abbiamo bisogno di una nuova classe politica e di una nuova cultura politica. Niente è più logoro del trasformismo renziano. Con umiltà, con realismo, senza pregiudizi, abbiamo bisogno di cominciare a lavorare a un’alternativa che si ponga il problema di rifondare l’Italia, partendo dall’obiettivo senza il quale non sarà mai possibile cambiare il Paese: una repubblica presidenziale.