Se volete capire la Storia contemporanea ripartite dal 1979
17 Agosto 2009
Che cosa hanno in comune l’ayatollah Khomeini, Margaret Thatcher, papa Giovanni Paolo II e Deng Xiaoping? Se si vuol capire la nascita dei fattori che caratterizzano l’era moderna, ovvero la religione come forza politica, la globalizzazione postcomunista e le economie del laissez-faire, si lasci perdere il ’68. Si metta da parte anche il 1989. L’anno più importante di tutti è il 1979. Fu allora che ebbe inizio un capitolo rimarchevole nella storia dei rapporti internazionali e della cultura mondiale, che vide tra i suoi protagonisti il più strano gruppo di persone che si possa immaginare.
Nel 1979 l’ayatollah Ruhollah Khomeini conquistò il potere in Iran, e mostrò una volta per tutte che la frase “rivoluzione islamica” non è una contraddizione in termini. L’Unione sovietica prese la fatale decisione di invadere i vicini poveri dell’Afghanistan, accendendo un genere diverso di rivolta islamica che avrebbe piantato uno dei primi chiodi nella bara dell’impero comunista. Il primo ministro Margaret Thatcher fu l’artefice della rinascita dei conservatori in Inghilterra, evento che cambiò non soltanto le regole della politica occidentale ma pose anche le basi della seguente era, improntata alla globalizzazione dei mercati. Il primo pellegrinaggio di Giovanni Paolo II nella sua natia Polonia nell’estate del 1979 diede coraggio a tutti gli amanti della libertà che vivevano nell’Europa centro-orientale, e avviò una serie di eventi che culminò nelle rivoluzioni nonviolente del 1989. E per tutto il 1979, uno stoico e improbabile visionario di nome Deng Xiaoping intraprese, con calma e tranquillità, i primi passi di quella lunga marcia che avrebbe portato la Cina dal comunismo al libero mercato.
La Thatcher sembra non aver nulla in comune con gli ayatollah e Deng, e tanto meno col Papa. Eppure c’è qualcosa che collega questi personaggi apparentemente tanto disomogenei. A modo suo, ognuno di loro andò oltre quello che era lo spirito consolidato dell’epoca, vale a dire oltre l’ordine progressista, secolare, materialista che, fino ad allora, aveva dominato la scena politica del dopoguerra. Ognuno di questi personaggi fu l’artefice non di un semplice movimento politico, bensì di un vero e proprio riarmo morale che rifiutava risolutamente ciò che ai suoi occhi appariva come decrepito, malato, stagnante, soffocante, imposto da tecnocrati che cercavano di accelerare la marcia dell’umanità verso la "fine della storia". Visti da una tale prospettiva, gli eventi del ’79 furono legati da un impulso controrivoluzionario, vuoi contro il comunismo sovietico, vuoi contro la socialdemocrazia o il moderno autoritarismo, o un maoismo ormai fuori controllo.
I controrivoluzionari del ’79 attaccarono quella che era la più radicata convinzione del tempo: la fede in una visione “progressista” che credeva possibile arrivare a un ordine politico perfettamente razionale, egualitario e giusto. Il collasso degli imperi europei dopo la Prima guerra mondiale, e poi la Rivoluzione russa, la Grande depressione, il trionfo della pianificazione negli anni della Seconda guerra mondiale, furono tutti fattori che contribuirono all’affermarsi di una tale prospettiva, che acquistò slancio dal processo di decolonizzazione del dopoguerra e dal sorgere di regimi marxisti in tutto il mondo. Nel 1970, tuttavia, cominciava a farsi strada una crescente disillusione, accompagnata in molti paesi dalla sensazione che elite senza cuore (e in molti casi violente) avevano cercato di imporre una visione meccanicistica e falsa delle cose, imponendola brutalmente a scapito della libertà, delle tradizioni e della cultura locale. Il risultato delle rivolte del 1970 è che adesso viviamo in un mondo definito da valori pragmatici e tradizionali, piuttosto che ispirato alle grandi utopie.
Il successo delle controrivoluzioni dell’epoca non era affatto scontato e molti osservatori, nel 1979, non ne capirono le implicazioni. E quelli che capirono, come spesso accade, bollarono quei sussulti della storia come l’azione di forze retrograde di distruzione di massa. I sostenitori dello scià Reza Pahlavi accusarono Khomeini di voler spostare all’indietro le lancette della storia, mentre gli avversari di Deng lo calunniavano dandogli del “battistrada del capitalismo”. Per i sovietici i mujahidin afgani rappresentavano “l’antico ordine feudale”, mentre il Papa era una forza del “neocolonialismo”. Ma queste etichette, in genere, erano accettate con serenità da coloro che avrebbero dovuto sentirsi offesi. Nella campagna elettorale di quell’anno, in aprile, parlando a un congresso del partito conservatore, la Thatcher, dopo aver ricordato come i suoi avversari politici la definissero “reazionaria”, dichiarò orgogliosamente: “Bene! Ci sono così tante cose contro cui reagire!”.
Infatti era proprio così. E forse è ancora così, perché adesso, a trent’anni di distanza, le trasformazioni del ’79 sono decadute a loro volta in un ordine stabilito, i cui eccessi potrebbero ispirare nuove reazioni e nuove controrivoluzioni.
Si pensi a come appariva il mondo il primo gennaio del 1979. Il marxismo sovietico sembrava tutto fuorché fragile. Il regime di Mosca, che si era liberato di Dio, delle libertà individuali e della spontaneità del mercato, traeva forza dall’esplosione del prezzo del petrolio. Gli analisti della Cia lo consideravano una superpotenza tanto economica quanto militare, e lo staff del presidente Carter era allarmato dall’avanzata sovietica nel terzo mondo. Dal Vietnam al Nicaragua, le tessere del domino stavano cadendo una dopo l’altra. Se qualcuno avesse affermato che la potentissima Urss si sarebbe dissolta in modo incruento di lì a pochi anni a causa di una ribellione religiosa in Afghanistan e di un Papa polacco, l’avrebbero certo preso per matto (alcuni anni dopo, un dissidente sovietico di nome Andrei Amalrik scrisse un libro che prevedeva l’imminente caduta dell’Unione sovietica, motivandola in particolare con “l’isolamento estremo in cui il regime ha messo tanto la società quanto se stesso” e concludendo che il risultante scollamento con la realtà avrebbe reso il crollo “più rapido e decisivo”, quando sarebbe giunto. Naturalmente, Amalrik venne giudicato, da quei pochi che gli prestarono attenzione, un tipo perlomeno strampalato).
La versione cinese del comunismo, al confronto, appariva assai più debole. La febbre maoista nata dalla Rivoluzione culturale era in fase calante, ma i traumi che aveva provocato restavano, e l’annuncio di Deng del 1978, quello in cui disse che la politica del governo da allora in poi sarebbe stata guidata dal principio “cercare la verità dai fatti”, venne considerato niente più che un proclama donchisciottesco. Nessuna nazione comunista si era mai riformata con successo. Il tentativo di destalinizzazione tentato da Krusciov nel 1950 aveva miseramente fallito, come del resto erano falliti altri tentativi di riforma in Cina.
Ma Deng era diverso. Per lungo tempo discepolo di Mao Tse Tung, si separò gradualmente dalle utopie di rivoluzione perpetua del Grande Timoniere. Deng era un indurito sopravvissuto politico. Estromesso per due volte dal comitato centrale del partito comunista cinese, riuscì a tornare in sella nel 1977, sulla scia della morte di Mao e dell’arresto della Banda dei quattro. Il suo appello per un’era consacrata al pragmatismo ebbe una forte risonanza emotiva per la folla entusiasta che accolse la notizia del suo ritorno a Pechino. In tre saggi dati alle stampe nel 1975, denunciati dai maoisti come altrettante “erbacce velenose”, Deng assunse posizioni nettamente conservatrici su quasi ogni cosa, dall’arte all’economia. Sebbene si prodigasse nel rappresentare i suoi lavori come una difesa della vera rivoluzione, i suoi sostenitori intesero perfettamente quello che voleva dire: ritorno alle tradizioni, al senso comune, all’efficienza. Ciò implicava un ripudio radicale di tutto quello per cui Mao si era battuto nel 1949.
La Cina è una nazione che, tra tante catastrofi, ha vissuto ripetute ondate di carestia orchestrate dallo stato. Così, i primi contadini che, nel 1978, si diedero all’utilizzo privato della terra, lo fecero in rigoroso segreto, avendo paura di essere puniti. Ma nel 1979 Deng li sorprese non soltanto approvando il loro esperimento, ma estendendolo a tutta la nazione. Accolse anche l’idea di stabilire, in Cina, delle “speciali zone economiche”, dove investitori stranieri potessero installare fabbriche nelle quali avrebbero lavorato maestranze locali a basso salario; e diede il via all’acquisizione delle tecnologie e delle conoscenze occidentali, commettendo così un altro ribaltamento rispetto ai dogmi maoisti. Non sfugge allora che fu una mossa logica da parte degli Stati Uniti, provati dalla stagflazione e dalla sconfitta in Vietnam, decidere con Richard Nixon di aprire alla Cina per porre un argine all’espansionismo sovietico. I due paesi allacciarono relazioni diplomatiche proprio nel 1979.
Il genio di Deng, si è poi capito, è stato quello di iniziare con calma e senza scosse, così lentamente che la vera dimensione della sua controffensiva contro il maoismo venne a lungo trascurata in Occidente. Quando Deng si recò in visita negli Stati Uniti, l’inviato del Washington Post poté soltanto scuotere la testa di fronte “all’entusiasmo degli uomini d’affari americani che guardano al mercato cinese, entusiasmo che appare esagerato persino ai funzionari commerciali a seguito del presidente”. Nessuno avrebbe osato prevedere che il Pil del grande paese asiatico sarebbe cresciuto di dieci volte nel giro di una generazione. (continua…)
Tratto da Foreign Policy
Tradotto da Enrico De Simone