Senza cassa integrazione e con divieto di licenziare: così il buco del Decreto “rilancio” uccide le imprese

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Senza cassa integrazione e con divieto di licenziare: così il buco del Decreto “rilancio” uccide le imprese

Senza cassa integrazione e con divieto di licenziare: così il buco del Decreto “rilancio” uccide le imprese

21 Maggio 2020

C’è un’enormità nel “decreto Rilancio”, fin qui incredibilmente sottaciuta, che spiega anche il nome del provvedimento. Nel senso che di fronte allo spettro di difficoltà economiche di una certa entità, il governo ha fatto ciò che gli riesce meglio: “rilanciare” la palla agli imprenditori e scaricare sulle spalle dell’Italia che produce il peso della crisi sociale.

I fatti. Il decreto di marzo, il “cura Italia”, aveva previsto fra l’altro due misure: il blocco delle procedure collettive di licenziamento e dei licenziamenti individuali per ragioni economiche fino al 16 maggio, e nove settimane di cassa integrazione, con possibilità di ricorrervi retroattivamente a decorrere dal 23 febbraio e accesso esteso a tutte le categorie e a imprese di ogni dimensione, indipendentemente dal numero dei dipendenti e dai parametri che in tempi ordinari disciplinano l’accesso agli ammortizzatori sociali.

Lasciamo un attimo da parte ogni considerazione sul reale funzionamento di questo strumento, sul fatto che un numero enorme di lavoratori non hanno ancora visto un euro, sull’assurda previsione che ad anticipare i quattrini debbano essere i datori di lavoro. Il fatto nuovo, incredibile, è che l’ultimo decreto – quello che avrebbe dovuto arrivare ad aprile e invece si è visto a fine maggio – ha prorogato entrambe le misure, ma con una sorpresa: il blocco dei licenziamenti economici è stato allungato fino al 17 agosto, mentre alle nove settimane di cassa integrazione ne sono state aggiunte, per tutto il periodo che arriva fino al 31 agosto, soltanto altre cinque. Sicché un’azienda che per i propri dipendenti l’avesse attivata il 23 febbraio si troverebbe a secco già a fine maggio. Ma anche per chi avesse atteso l’inizio del lockdown, l’ora fatale arriverebbe non oltre la metà di giugno.

Per un numero assai limitato e circoscritto di settori è prevista la possibilità di anticipare a prima del 31 agosto quattro ulteriori settimane di cassa integrazione che il decreto autorizza per il bimestre settembre/ottobre. Ma il problema non si sposta di una virgola.

Per farla breve: un’azienda in difficoltà, che per questo ha dovuto “parcheggiare” i propri dipendenti, che non abbia possibilità di riaprire o sia quantomeno costretta a rimodulare i propri livelli produttivi, si troverebbe per tre mesi, da giugno ad agosto, senza cassa integrazione a cui ricorrere e senza la possibilità di licenziare. Come dovrebbe sopravvivere, le menti illuminate al governo del Paese non lo chiariscono. E se per le grandi imprese potrebbe aprirsi la strada degli ammortizzatori ordinari, quelle più piccole si vedrebbero condannate a chiudere e a non riaprire più, o a indebitarsi fino al collo per poi procedere ad agosto a inevitabili licenziamenti di massa.

Prendiamo il caso di un ristorante. Chiuso da marzo per decreto, autorizzato a oltre metà maggio a riaprire con notevoli restrizioni, gravato di nuovi oneri (sanificazioni, dispositivi di protezione, ecc.), costretto a ridurre di molto i coperti e di conseguenza gli introiti, dovrebbe riprendere in servizio tutti i camerieri dell’era pre-Covid per fare non si sa cosa e pagarli non si sa in che modo. Se si pensa che per un cameriere beccato a lavorare in nero rischia seimila euro di multa e tre mesi di assunzione obbligatoria, ammesso che sopravviva a questa follia, la prossima volta all’imprenditore tutto converrà fuorché mettere in regola un dipendente. Non perché siamo un popolo di evasori fiscali, ma perché viviamo in uno Stato criminogeno. E, a questo punto, letteralmente criminale. Si salvi chi può.