Senza equità fiscale nessuna ripresa

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Senza equità fiscale nessuna ripresa

Senza equità fiscale nessuna ripresa

14 Aprile 2020

Ad apparire virale, nelle ultime sei settimane, è stato soprattutto lo slogan #iorestoacasa. Coniato dal Governo per piegare progressivamente la resistenza degli irresponsabili, dei libertari o dei semplici runners, lo state a casa è stato poi ulteriormente amplificato da influencer, personaggi dello spettacolo e pubblicitari di grandi aziende, tutti certamente ben consapevoli di quanto sia difficile nuotare controcorrente nell’era della comunicazione di massa. Chiunque accendeva la televisione nella vana speranza di potersi distrarre anche solo per un attimo era destinato in questo modo a ripiombare nel suo torpore per l’effetto di voci, di messaggi, di numeri o di opinioni aventi tutti un unico necessario contenuto.

E’ probabile che una prima fase di lockdown orizzontale abbia effettivamente rappresentato l’unica soluzione ragionevole per contrastare provvisoriamente gli effetti dell’epidemia ed è anche possibile che non si potesse fare davvero alcuna distinzione fra Milano, Roma e Palermo. Personalmente, se fossi stato uno scienziato, avrei preteso dal Governo l’immediata acquisizione di dati affidabili ed avrei certamente evitato di esibirmi continuamente con i media per parlare di un fenomeno che nessuno è ancora in grado di decifrare. Ma fossi stato invece il Presidente del Consiglio, avrei dovuto comunque prendere atto delle indicazioni provenienti dalla larga maggioranza dei tecnici, senza esporre a rischi eccessivi la salute dei miei concittadini, a maggior ragione al cospetto dei molti governatori che fungevano da megafoni istituzionali dell’istanza di chiusura e di protezione.

Ma quello slogan, a dire il vero, lo avrei evitato con ogni mezzo, perché in esso si nasconde gran parte del cortocircuito comunicativo che finirà per aggravare terribilmente gli effetti politici ed economici del virus. Manteniamo le distanze, chiudiamo le porte al virus, proteggiamo i nostri anziani, lavoriamo da casa. Qualsiasi cosa però non la rinuncia, non l’inedia, non l’attesa di un qualcosa che è destinato a non accadere, perché è divenuto presto chiaro a tutti che il virus non potrà certo scomparire e che è solo moltiplicando il nostro impegno e la nostra inventiva che potremmo riuscire ad evitare il disastro.

Al bastone paternalistico ed eticizzante dello state a casa non poteva invece non accompagnarsi pericolosamente la promessa di soldi per tutti, come tale manifestamente ingannevole ma destinata comunque a determinare tutta una serie di aspettative.

Sul piano politico, l’attesa forzata è divenuta quindi il sinonimo di una legittima pretesa di assistenza pubblica generalizzata.

Innanzitutto da parte dei lavoratori dipendenti, perché il fondamento dell’assistenza previdenziale di cui godono è che chi è costretto a casa per motivi di salute o per adempiere ad una imposizione di Stato deve rimanere necessariamente a carico della collettività. E se purtroppo ci rimarrà anche dopo la progressiva riapertura, la situazione non muta di molto, perché il lavoro lo ha comunque perso per l’effetto di una decisione del Governo, sul quale finisce quasi per ricadere l’obbligo morale di garantirne il sostentamento, anche ben al di là dei normali ammortizzatori sociali.

Alle pensioni ed agli ulteriori costi necessari al rafforzamento della sanità pubblica andrà quindi necessariamente ad aggiungersi il peso della cassa integrazione e di un reddito di cittadinanza che appare ormai destinato a trasformarsi, senza più veli o ipocrisie, in uno stabile meccanismo di sostentamento degli inoccupati. Un numero significativo di italiani va incontro ad una stagione di disoccupazione e sia pur con assegni inevitabilmente ridotti non potrà comunque essere lasciato solo in attesa della ripresa.

Ma se davvero si vuol credere alla parola solidarietà, intesa in senso proprio e non già come moltiplicatore ideologico delle più varie richieste di assistenza, è necessario trasmettere al paese un senso di effettiva unità, sdrammatizzando per una volta – almeno in termini simbolici – l’insopportabile distinzione fra il mondo dei garantiti e quello dei meno garantiti. In questo senso una provvisoria riduzione del 10% degli stipendi pubblici di coloro che quest’anno hanno lavorato un po’ meno, in conseguenza del Coronavirus (ma che hanno potuto continuare a contare sulla sicurezza di uno stipendio mensile) manderebbe un messaggio di effettiva vicinanza a tutti coloro che hanno dovuto invece continuare ad uscire di casa anche nel periodo emergenziale e soprattutto a quei tanti dipendenti privati che a causa del Coronavirus rischiano invece di aver smesso di lavorare per un lungo periodo.

Dal canto loro, i lavoratori autonomi meno abbienti, da sempre destinatari di uno stato sociale di serie B, attendono un piccolo assegno di 600 euro in quanto il Governo ha voluto quantomeno dimostrare una minima consapevolezza della loro esistenza anche a costo di concedere a tutti una somma una tantum che non ha oggettivamente alcun particolare significato. Di questa si dovranno ovviamente accontentare, sperando che le loro attività riprendano presto e che il loro contributo sia ancora utile, mentre in caso contrario dovranno cercare faticosamente di reinventarsi per non finire a loro volta nella schiera degli inoccupati.

Ed allora, se queste sono le regole dello Stato sociale moderno e se la ripresa economica è l’unica possibile forma di contenimento del disastro che ci si è improvvisamente parato dinanzi, al punto da dover essere perseguita e stimolata whatever it takes, è evidente che i ceti più produttivi devono essere necessariamente spinti a contribuire al benessere del paese ancora più di prima, perché altrimenti – Europa o non Europa – il sistema non potrà reggere in alcun modo.

Pensare che un lavoratore autonomo o un piccolo imprenditore possa essere portato ad indebitarsi per lungo tempo con lo Stato al solo fine di riuscire a pagargli regolarmente le tasse significa non conoscere nulla dello spirito che anima l’iniziativa privata. Senza un alleggerimento straordinario della pressione fiscale, lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori rischiano semplicemente di tirare i remi in barca, perché in questo contesto – per molti di loro – non ne varrà probabilmente più la pena.

L’enorme liquidità pomposamente promessa servirà senz’altro alle tante aziende solide che soffrono di un temporaneo squilibrio finanziario, ma non certo a quei piccoli imprenditori o a quei lavoratori autonomi che dedicano ogni sforzo alla loro attività riuscendo con fatica a tirarne fuori uno stipendio o che pur godendo di risparmi sufficienti continuano a dedicarsi anima e corpo al percorso intrapreso nella speranza di riuscire a fare, sempre e comunque, qualcosa di più e di meglio rispetto all’anno precedente.

Ecco, più che a promettere generalizzate garanzie a fondo perduto, il Governo dovrebbe pensare urgentemente a questa platea. Perché altrimenti da dicembre, quando verrà meno la moratoria fiscale, saranno in tanti a non versare più le imposte e ad utilizzare per altri scopi gli eventuali finanziamenti ottenuti, con conseguente definitiva rottura del nostro già fragile patto sociale. Anche in questo caso, per tenere unito il paese vi è assoluto bisogno, anche in termini simbolici, di un messaggio di condivisione, di fiducia, di speranza, di libertà. Se ad esempio si decidesse di innalzare a 100.000 euro il regime della flat tax, come era stato previsto dal precedente Governo, si stimolerebbe certamente la ripresa, si spingerebbero i commercianti ed i lavoratori autonomi verso

comportamenti fiscali più virtuosi e si riuscirebbe a far emergere il sommerso in modo duraturo, in attesa di poter programmare quell’ampia riforma fiscale che l’Italia attende da anni.

Per quanto riguarda invece le imposte sui redditi del 2019 è assolutamente necessario premiare le imprese e i lavoratori autonomi che pur non avvalendosi di alcun regime di favore decideranno di versare tempestivamente al Fisco quanto dovuto. L’idea potrebbe essere quella di riconoscergli un credito di imposta pari al 50% dell’imposta versata, da suddividere nelle 6 annualità successive. A queste condizioni, anche l’anomala prospettiva di doversi indebitare per riuscire a pagare le tasse potrebbe diventare – per le piccole e medie imprese e per i lavoratori autonomi – una ragionevole scommessa sul proprio futuro e su quello del paese.

In un momento così drammatico, è inutile nascondere che sullo Stato italiano gravi innanzitutto un enorme deficit di fiducia da parte dei suoi stessi cittadini. Pochi giorni fa la sconcertante proposta del Partito Democratico sull’ulteriore aumento dell’imposizione sul lavoro ha aggravato ulteriormente il dissesto, facendo percepire ancora una volta lo Stato come un nemico. Per questo, se si crede davvero che alla crisi si debba reagire uniti, valorizzando l’impresa ed il lavoro nell’interesse comune, non c’è un minuto da perdere. Perché a dicembre, invece, rischia di essere troppo tardi.