Senza federalismo fiscale non può esserci una sana autonomia regionale
29 Settembre 2010
Ai sensi dell’art. 16, comma 3, D.Lgs. n. 446/1997, "le Regioni hanno facoltà di variare l’aliquota di cui al comma 1 fino ad un massimo di un punto percentuale. La variazione può essere differenziata per settori di attività e per categorie di soggetti passivi".
Secondo quella che sembra essere la bozza di decreti attuativi che a breve dovrebbero essere presentati dal Governo, si dovrebbe prevedere la possibilità di ridurre, fino addirittura ad azzerare, con legge regionale, l’aliquota dell’Irap (che oggi è del 3,9%, variabile in più o in meno dello 0,92%). Le Regioni hanno dunque, già oggi, nel rispetto dei limiti fissati dalla legge statale, il potere di fissare le aliquote dell’Irap, potendo così sfruttare uno spazio di autonomia che, seppur contenuto, può risultare funzionale al perseguimento di specifiche politiche locali, potendo anche ciascuna Regione introdurre aliquote differenziate per settori economici e categorie di soggetti passivi, in combinazione o meno con la variazione dell’aliquota ordinaria.
Di seguito, si individuano, per esempio e senza alcuna presunzione di completezza, una serie di possibili ipotesi di soggetti nei cui confronti si potrebbe ridurre l’aliquota ordinaria (alcune di queste, peraltro, sono già state approvate da singole Regioni):
– le nuove imprese costituitesi in qualsiasi forma giuridica, limitatamente ai primi tre periodi d’imposta;
– imprese e lavoratori autonomi che incrementano il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato;
– visione ordinaria;
– le piccole e medie imprese che, a prescindere dal settore in cui operano, non superino un determinato fatturato;
– le aziende i cui titolari abbiano sporto denunzia circostanziata nei confronti di atti estorsivi compiuti ai loro danni;
– le onlus, le associazioni di promozione sociale, le cooperative sociali e le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza;
– le nuove imprese femminili e giovanili;
– le imprese che esportano all’estero almeno il 50 per cento del fatturato dell’ultimo anno;
– le imprese rientranti nella definizione dell’Unione Europea di piccole e medie imprese, che, nel corso del periodo d’imposta, abbiano alternativamente realizzato una delle seguenti condizioni:
1. o ottenuto una delle certificazioni o registrazioni secondo la normativa vigente in materia di sistemi di gestione etica, di qualità aziendale e ambientale;
2. o registrato almeno un brevetto internazionale, europeo o nazionale per invenzione industriale, modello di utilità o modello ornamentale;
– le imprese per le quali sia stato dichiarato lo stato di crisi aziendale;
– le nuove imprese costituite nei piccoli comuni con popolazione residente inferiore o pari a duemila abitanti e in cui insistano situazioni di marginalità socio-economica e infrastrutturale;
– le società di capitali, enti commerciali, società in nome collettivo e in accomandita semplice e le persone fisiche esercenti attività commerciali che hanno realizzato il valore della produzione netta nel territorio di comuni inclusi nelle aree svantaggiate e nelle aree cosiddette phasing-out, destinatarie di fondi comunitari in quanto hanno raggiunto determinati parametri di sviluppo.
Insomma, questi sono solo alcuni spunti, ma le ipotesi attuative possono essere davvero tante. Proprio oggi che sono in dirittura d’arrivo i decreti attuativi sul federalismo fiscale occorre, però, verificare la legittimità di tali previsioni anche in riferimento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. L’esercizio della facoltà con riferimento all’aliquota standard non sembra comunque porsi in conflitto con il diritto comunitario: nonostante l’esercizio di tale facoltà possa comportare differenze nella disciplina dell’imposta, è infatti da escludere che tali differenze, correlate alla mera localizzazione territoriale dell’impresa, costituiscano un’eccezione ad un sistema generale, censurabile come aiuto di Stato.
Diverso è invece il discorso con riferimento alla facoltà di differenziare l’aliquota per settori di attività e per categorie di soggetti passivi: in questo caso, il rischio di attuare una (vietata) selettività materiale su base regionale è infatti possibile, vigendo la presunzione che l’agevolazione, proprio perché selettiva (cioè applicata esclusivamente ad una zona geografica limitata, oppure a beneficio di determinate imprese), produce effetti distorsivi della concorrenza.
La giurisprudenza comunitaria, del resto, è stata in passato costante nell’affermare che v’è aiuto di Stato se un provvedimento è tale da favorire determinate imprese o produzioni rispetto ad altre imprese o produzioni che si trovino in una situazione analoga, ritenendo comunque che gli aiuti fossero imputabili allo Stato anche se le relative disposizioni erano state emanate da enti territoriali.
Tale interpretazione ha sicuramente rappresentato un ostacolo all’introduzione, in Europa, di forme compiute di federalismo fiscale. Oggi però le cose, dopo alcuni interventi della Corte di Giustizia, sono in parte cambiate. Con la pronuncia della Corte di Giustizia europea dell’11 settembre 2008, causa n. C-428/06 e C-434/06, è stato infatti in particolare sottolineato come, al fine di valutare la selettività di una misura adottata da un ente territoriale in una parte del territorio di uno Stato membro, occorre verificare se il provvedimento sia stato adottato da tale entità nell’esercizio di poteri sufficientemente autonomi rispetto al governo centrale.
Per escludere il carattere selettivo della misura e, dunque la procedura di infrazione per illegittimo aiuto di Stato, la Corte chiede cioè che la misura fiscale sia stata emessa da un ente pienamente autonomo rispetto al Governo centrale, sotto il profilo istituzionale, procedurale ed economico. In presenza di questi tre requisiti si può parlare infatti di misura generale e quindi non sussiste aiuto di Stato.
Il criterio dell’autonomia risulta essere, pertanto, fondamentale al fine di valutare quali agevolazioni possano essere considerate aiuti di Stato e quali no, laddove appare però opportuno evidenziare che le uniche forme di prelievo che sembrano compatibili con il requisito dell’autonomia “comunitaria” sopra delineata (oltre alle compartecipazioni) sono i tributi propri (i tributi cioè frutto di una autonoma potestà impositiva regionale, ad oggi limitata all’istituzione residuale di tributi di tipo corrispettivo e di scopo).
A fronte di tutto ciò appare, dunque, in tutta la sua evidenza l’importanza di una riforma come quella del federalismo fiscale. In assenza infatti di un’attuazione completa dell’art. 119 della Costituzione, l’attuale status dell’autonomia regionale potrebbe anche non risultare in sintonia con gli orientamenti della Corte di Giustizia.