Senza gli Usa in Iraq non avremmo avuto le rivolte arabe

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Senza gli Usa in Iraq non avremmo avuto le rivolte arabe

22 Dicembre 2011

L’ immagine più incoraggiante degli ultimi mesi – che eclissa persino il coraggio e la dignità dei combattenti civili contro il dispotismo in Siria e in Libia, è stato vedere Hoshyar Zebari che arriva a Parigi per chiedere un’azione forte contro il regime corrotto del colonnello Muammar Gheddafi. Così il ministro degli Esteri dell’Iraq e il nuovo capo della Lega Araba, contribuivano a inclinare l’intero asse della diplomazia locale contro il governo assolutista.

Nel mese di maggio, l’Iraq ospiterà il vertice della Lega Araba, e sarà certamente divertente e altamente istruttivo vedere se i leader arabi avranno il coraggio, o magari l’abilità, di lasciare le loro capitali per parteciparvi. L’intera scena è particolarmente interessante per quelli di noi che ricordano Zebari come militante specializzato nell’esilio quale era 10 anni fa, mentre cercava di difendere il suo popolo esiliato dagli effetti delle armi chimiche di Saddam Hussein.

Qualcuno riesce a immaginare come la primavera araba avrebbe avuto luogo se uno stato chiave arabo, ricco di petrolio e pesantemente armato, con una miriade di interventi negli affari dei suoi vicini e una storia di totale repressione di massa contro i propri civili, fosse ancora proprietà privata di una sadica famiglia criminale?Aver avuto l’Iraq sull’altro piatto della bilancia fin dall’inizio è stato un vantaggio trascurato e non riconosciuto la cui ampiezza è impossibile da calcolare. E l’influenza dell’Iraq sull’equazione libica è stata ugualmente positiva in modi che sono spesso trascurati. Sul primo punto, devo ammettere che i manifestanti egiziani e tunisini  ma anche altri non sono scesi in piazza sventolando bandiere irachene per emulazione. (Anche se Saad-Eddin Ibrahim, uno dei padrini intellettuali del movimento democratico egiziano, ha salutato pubblicamente la caduta di Saddam come un’ispirazione, e molti leader della prima "primavera" libanese hanno parlato apertamente negli stessi termini.)

Questa reticenza è abbastanza comprensibile dato che, a parte la regione settentrionale curda dell’Iraq, da cui proviene il ministro degli Esteri Zebari, la liberazione del paese non è stata del tutto opera del suo popolo. Ma questo punto è diventato più discutibile da quando la stessa Lega Araba ha ammesso che ci sono alcuni regimi che non possono essere rovesciati senza assistenza esterna. Il paese di Gheddafi è per eccellenza uno di questi, e quello di Saddam era chiaramente così, come i ripetuti bombardamenti sulla popolazione sciita e curda hanno ampiamente dimostrato. Nel frattempo, l’Iraq ha già, seppur in forma rudimentale e debole, libertà di stampa, una Costituzione scritta e un sistema di elezione parlamentare che è la richiesta minima della società civile araba.

L’Iraq è passato anche attraverso la dura prova del fuoco quando i sostenitori di Bin Laden hanno scagliato tutto quello che avevano contro una democrazia emergente e sono stati ampiamente sconfitti e screditati. Questi sono insegnamenti utili non solo per la Mesopotamia.

Per quanto riguarda l’effetto Iraq sulla Libia, ecco quello che mi è stato detto in via confidenziale dal diplomatico britannico che ha contribuito a negoziare la resa delle scorte d’armi di distruzione di massa di Gheddafi. Non esattamente un neoconservatore (una razza in ogni caso rara per il “Foreign and Commonwealth Office” di Sua Maestà), il diplomatico ha sottolineato tre fattori. In primo luogo, e almeno in questa occasione, l’Occidente aveva un’ottima “intelligence” ed era in grado di sorprendere e scoraggiare Gheddafi, poiché conosceva l’entità dei suoi programmi segreti. Inoltre, e questo agiva cumulativamente nel corso del tempo, c’era stata l’irremovibile determinazione delle Corti scozzesi riguardo l’atrocità di Lockerbie. (Non scherzare con legge scozzese, una massima non proprio capita da quelli che si sentono il "re dei re.")

In terzo luogo, e molto importante per il suo tempismo, è stato il timore di Gheddafi di vedersi riservata la stessa sorte toccata a Saddam Hussein. Questo è stato ampiamente confermato da molti funzionari libici che hanno concesso udienza a molti dei miei amici. Non è un caso che Gheddafi si sia rivolto a George W. Bush e Tony Blair e non alle Nazioni Unite. Così ora le scorte d’armi di Gheddafi sono al sicuro a Oak Ridge, nel Tennessee – sulle quali erano rimaste le tracce incriminanti della rete di A.Q. Khan in Pakistan – e chi vorrebbe in teoria, che fosse altrimenti?

Ma anche senza i suoi artigli, Gheddafi è rimasto un fastidio immondo. Come riportava il New York Times in un brillante rapporto la scorsa settimana, Gheddafi ha costretto le compagnie petrolifere occidentali a pagare 1,5 miliardi di dollari di ammenda impostagli per Lockerbie. Ha continuato a privare il suo popolo, – basta vedere in tv quanto è povero e denutrito, – mentre sperpera le immense ricchezze della Libia in progetti di interesse personale. I suoi interventi sanguinosi in Liberia, nel Darfur e in Ciad, dove un altro aereo civile è stato fatto saltare in aria, –  stavolta francese -, da molto tempo sarebbero dovuti essere sotto accusa per crimini di guerra e contro l’umanità. Come Saddam Hussein, Gheddafi ha palesemente e fanaticamente insistito sul definire se stesso come il problema, la fons et origo della miseria della Libia e delle disgrazie della regione. Perché, allora, dobbiamo timidamente insistere con la scusa che stiamo prendendo di mira "le sue forze", ma non lui?

In Gran Bretagna, per esempio, l’argomento ha raggiunto proporzioni farsesche. Nessuno dubita che l’altro giorno sia stato un missile cruise britannico a distruggere il complesso “Bab-al-Azizya” di Gheddafi. Ma mentre il primo ministro David Cameron dice che il dittatore può giustamente essere considerato un obiettivo di un certo livello, il capo della Difesa inglese, il generale Sir David Richards, dice "assolutamente no", perché la risoluzione Onu non copre questa eventualità.

A Washington, il presidente Barack Obama dice giustamente che Gheddafi "deve andare via", ma la missione viene descritta con il preciso obiettivo di proteggere i civili dal massacro. Anche nel linguaggio militare quasi-tecnico, questo è incoerente. Se le parole “comando” e “controllo” hanno un senso, sicuramente identificano l’ignobile monarca che ha comandato e controllato i libici per troppo tempo.

Hoshyar Zebari cita allegramente come precedente la no-fly zone, che per lungo tempo ha protetto il Nord e il Sud dell’Iraq dagli elicotteri di Saddam Hussein. Ma egli sa perfettamente che la logica di ciò è inesorabile. Ogni giorno, le forze di terra di Saddam aprivano il fuoco su quegli aerei. Ogni giorno, il cessate il fuoco nel post – Kuwait è diventato più sfilacciato e violato. Ogni giorno, è diventato più chiaro che l’Iraq è stato il miserabile ostaggio dei capricci di un tiranno. Il compito immediato è ora quello di assimilare quelle lezioni, abbreviare il tempo in cui le conoscenze acquisite possono essere applicate, chiamare il male con il suo vero nome, e affrontare Gheddafi con una scelta netta tra la sua morte e la sua comparsa sul banco degli imputati. È moralmente impensabile che il Colonnello possa emergere con un benché minimo straccio di potere residuo, ed è moralmente debole la posizione di coloro che non hanno il coraggio di dirlo ad alta voce.

Le brutte e pesanti parole mission creep assumono una bellezza improvvisa tutta loro. Quando la Lega Araba si riunirà a Maggio, dovrebbe accogliere un nuovo governo provvisorio libico sul suolo di un Iraq libero. Allora avremo chiuso il cerchio e vendicato tutte quelle persone coraggiose che sono cadute nel portare giù il primo e peggior bastione dell’ ancien regime.

Tratto da Slate

Traduzione di Sara Minà