Senza riconciliazione nazionale, in Italia ha vinto la “cultura del nemico”

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Senza riconciliazione nazionale, in Italia ha vinto la “cultura del nemico”

05 Dicembre 2010

Pietrangelo Buttafuoco la chiama “porca architettura della memoria”: ed esagera. Altrettanto esagerato è il revisionismo nel quale ovunque e comunque si lanciano i nostalgici della sconfitta ed i loro eredi più o meno informati. C’è però da convenire che i festeggiamenti di alcune ricorrenze hanno assunto la monotonia e la fissità della liturgia.

Ultime occasioni per dare sfogo al contrasto sono state qualche mese fa il libro di Andrea Augello “Uccidete gli Italiani” e il film “Il Sangue dei Vinti” tratto dal libro di Giampaolo Pansa. I titoli sintetizzano rispettivamente il discorso che Patton fece alle truppe angloamericane in occasione dello sbarco in Sicilia e la ricostruzione documentata e non di parte di alcune vicende, personali e collettive, di italiani che parteciparono agli scontri che terminarono con la liberazione/conquista dell’Italia da parte degli angloamericani e dei partigiani.

Lo sforzo di sfruttare la distanza temporale per assumere distanza critica sufficiente a restare neutrale è comune ai due racconti ma non sempre il tentativo riesce: qua e là emerge l’irritazione per le troppe omissioni e per la storiografia ufficiale di quei giorni che descrive italiani non solo privi di virtù guerriere ma addirittura macchiette voltagabana. Le due narrazioni hanno però il merito di rilanciare la discussione su un passato che pesa addosso ai pronipoti di chi lo visse, perché non ancora metabolizzato. E questo ripropone la discussione sulla “fissa” dei nonni dei diciottenni italiani di fare della loro ricostruzione storica una ragione di identità separata. Anche se ormai è chiaro a tutti che la verità è più articolata, soprattutto negli esiti dei piccoli atti di eroismo individuale e collettivo che sono documentati.

Gli esiti, dicevamo. I tedeschi hanno molte più cose da perdonarsi reciprocamente per quanto avvenuto nei cinque lustri che vanno dal 1920 al 1945: basta leggere i libri di Joachim Fest ("Obbiettivo Hitler – la resistenza al nazismo") e David Welch ("Le cospirazioni del Terzo Reich"). Anche senza contare la sofferenza che alcuni tedeschi hanno continuato ad infliggere ai loro connazionali nei quarant’anni nella Germania Orientale successivi alla fine della guerra. Nondimeno dopo poco più di cinque anni dalla caduta del muro di Berlino, esattamente l’ 8 maggio 1995, il riunificato popolo tedesco scelse l’8 maggio 1945 come data della sua riconciliazione nazionale, unificando i festeggiamenti della liberazione sia dal nazismo che dal comunismo. Decidendo di arretrare idealmente la data della caduta del regime comunista alla data della caduta del regime nazista, la Germania non solo ha operato la corretta equiparazione storica, non etica, di due regimi totalitari feroci ma si è riconsegnata unita alle generazioni che quei totalitarismi non hanno conosciuto personalmente.

In Italia un 8 maggio 1945 non c’è ancora stato perché non c’è concordia sul riconoscimento degli altri italiani, quelli che stettero in buona fede dalla parte sbagliata né sul recupero, certamente critico ma effettivo, della loro memoria storica.

L’assenza di queste due premesse ha reso impossibile alimentare la comunione politica su cui fondare una ritrovata identità comune e formare una coscienza nazionale. Ecco perché per festeggiare con profitto i 150 anni della nostra unità nazionale occorre riconoscere il diritto di affermare – senza accuse di blasfemia – che la prospettiva partigiano-centrica con cui è stata costruita la storia italiana degli ultimi cinquant’anni, ha ghettizzato il cordoglio dei famigliari degli altri italiani caduti in guerra e ha partorito la cultura del nemico anziché dell’avversario politico.

La scelta di giudicare e condannare i comportamenti degli italiani fascisti in base a criteri morali anziché solo giuridici poteva essere giustificabile a caldo, come reazione istintiva alle sofferenze inferte da un regime totalitario, ma affinché il 150enario dell’unità italiana sia fecondo occorre che l’incapacità conciliativa lasci luogo alla coscienza che solo la contestualizzazione di alcuni ispirativi costituzionali e il coerente adeguamento delle strutture organizzative dello Stato possono recuperare identità collettiva al popolo italiano. Un’identità collettiva che deve essere più forte ed ecumenica dei principi intorno ai quali si è formata.