Senza una vera politica economica non usciremo dalla (seconda) crisi
11 Agosto 2011
La seconda ondata della crisi che si è abbattuta sugli Stati Uniti e sull’Europa non mette a nudo soltanto le criticità di un sistema economico globale succube della finanza ma mostra soprattutto l’incapacità di trovare strumenti di governance per arginare l’ondata recessiva e il collasso dei mercati finanziari. Come spiega George Friedman in un articolo pubblicato su Stratfor, per gli economisti della scuola classica come Adam Smith o David Ricardo non usavano mai la parola “economia” da sola. Hanno sempre usato il termine “politica economica” perché è impossibile capire la politica senza l’economia e l’economia senza la politica. In quest’ottica, sono due realtà dipendenti l’una dall’altra che interagiscono tra loro plasmando le diverse forme di società.
Dal capitalismo americano, passando per la "invenzione" dell’euro, fino al mercatismo in salsa comunista che ha contraddistinto il miracolo cinese. Se è inscindibile il legame tra ordine politico e vita economica l’attuale crisi può essere solo una crisi di politica economica intesa come l’incapacità dei decisori politici (stati,organismi sovrannazionali) di elaborare strategie economiche per raggiungere una serie di obbiettivi sociali.
Il 14 settembre 2008 il crack di Lehman Brothers ha certificato il fallimento del sistema finanziario. La tecnofinanza capace di spostare da una parte all’altra del globo immense somme di denaro alla ricerca degli impieghi più redditizi, dimostra all’improvviso di non essere più sostenibile. È stato il motore della globalizzazione che ha permesso di trascinare fuori dalla povertà milioni di persone ma lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti dimostra la sua insostenibilità. Il fallimento del sistema finanziario è stato imputati all’elite che governa i mercati. I signori di Wall Street hanno preso le decisioni sbagliate creando un enorme problema politico (nell’accezione degli economisti classici) che non riguarda la fiducia in una particolare forma di strumento finanziario ma sulle stessa capacità e onestà degli uomini che governano la finanza mondiale.
In pochissimo tempo a Main Street si diffonde la sensazione che il gotha che governa l’economia di carta abbiano violato ogni principio di fiducia, responsabilità morale e sociale. Tutto passa in secondo piano davanti all’imperativo categorico di massimizzare il proprio guadagno, anche se il prezzo da pagare è far sprofondare il mondo nella peggior crisi dai tempi del 1929. Questa percezione, giusta o sbagliata, ha generato una imponente crisi politica. Ha alimentato una sensazione di impotenza davanti al tracollo del sistema economico globale.
Nel settembre 2008 la coppia improvvisata George W.Bush-Barack Obama ha dovuto salvare il sistema bancario americano perché “too big to fail”. Ma non è servito e la montagna di debiti accumulati per evitare il collasso del sistema creditizio adesso sta presentando il conto. Dall’altra parte dell’Atlantico è andata addirittura peggio. Le titubanze della Germania e l’intransigenza della Bce hanno ritardato gli interventi necessari ad arginare gli effetti devastanti della crisi greca. Con il risultato che la speculazione internazionale ha messo nel mirino anche l’Italia e la Spagna, moderni cavalli di Troia per sferrare l’attacco decisivo all’euro.
Questa incapacità di fronteggiare la crisi economica fa emergere con chiarezza la terza crisi: la delegittimazione del potere politico. In America come in Europa, i governanti sono percepiti sempre più come forze ostili capaci solo di prendere decisioni con conseguenze negative per i cittadini. I grandi banchieri Usa, una volta ricevuto l’aiuto di Washington, si sono ben guardati dal finanziare l’attività interna. Le grandi multinazionali, favorite dalla politica del dollaro debole hanno aumentato l’export verso l’Asia ma si sono ben guardate dal rimpatriare i profitti o a reinvestire in casa. Obama e l’Unione europea si sono mostrati troppo timidi nei confronti delle grandi banche.
La crisi che stiamo vivendo è quindi un problema politico, di incapacità di gestire il momento nero del sistema economico. I seguaci di Adam Smith credono che possa esistere una sfera economica separata dalla politica. Ma il pensiero del filosofo scozzese era più articolato e sottile. Ecco perché ha chiamato la sua opera la ricchezza delle nazioni. Parlava di ricchezza ma l’argomento era lo stato-nazione, la massima forma di organizzazione politica. Un gigantesco apparato in grado individuare i bisogni della società e di mettere a punto tecniche economiche per plasmare la società in base all’esigenza di arricchimento dei cittadini. Ma gli stati nazionali hanno perso la loro legittimità. Sono stati resi impotenti dallo allo strapotere della finanza transnazionale capaci di aggirare ogni barriera politica e condizionare le decisioni dei governi.