Serbia, la vittoria di Tadic riapre la partita del Kosovo
04 Febbraio 2008
Alla fine quei serbi che non volevano perdere
altri cinque anni in isolamento e retorica nazionalista hanno avuto la meglio.
Il capo di stato uscente, il democratico e moderato Boris Tadic, ha vinto il
ballottaggio delle elezioni presidenziali tenutosi ieri, ottenendo – stando ai
risultati non ancora ufficiali – il 50.5 per cento contro il 47.9 del suo avversario, l’ultranazionalista
Nikolic.
Il voto di domenica rimarrà sicuramente nella storia di
questa giovane e fragile democrazia balcanica. Prima di tutto perché la
maggioranza del suo popolo, per la terza volta dopo la cacciata di Milosevic
nel 2002, ha preferito la via della democrazia e dell’apertura all’Europa,
piuttosto che ripiombare nei vecchi stereotipi del passato. La vittoria di misura di Tadic e della sua linea politica è stata sicuramente favorita dalla
massiccia affluenza alle urne ma dimostra, al contempo, anche la profonda
divisione di una società che è ancora in cerca della propria identità.
Ciononostante, il verdetto è stato
definitivo e presuppone un atteggiamento più dialogante e aperto verso l’Unione
europea, che si è affrettata – attraverso la Presidenza slovena – a
salutare l’esito elettorale come la prova che
%0ABelgrado intende proseguire nel suo cammino europeo. I primi risultati tangibili
arriveranno il prossimo 7 febbraio, quando è prevista la firma di un
accordo tra i 27 e la Serbia per l’alleggerimento del regime
dei visti e per la cooperazione in numerosi campi quali l’economia, la ricerca scientifica e la cultura. Ma al di là dei contenuti, è chiaro a
tutti che si tratterà del primo vero passo verso l’accordo di stabilizzazione
e associazione, presupposto indispensabile per ottenere in seguito lo status di paese candidato.
Questo è il quadro nel medio e lungo
periodo. Nell’immediato, invece, Tadic non può concedersi troppi
festeggiamenti. Egli sa di trovarsi davanti a delle questioni impellenti e ha
già promesso di “rimboccarsi le maniche e lavorare sin dal primo minuto del
nuovo mandato”. La sua attenzione sarà rivolta, ovviamente, alla questione del
Kosovo che ha dominato anche la campagna elettorale e che ha portato alla sua
rielezione. Il risultato del secondo turno delle presidenziali potrebbe aprire
qualche spiraglio di trattativa sul destino della provincia serba che vuole insistentemente
l’indipendenza. Sicuramente il nuovo governo di Pristina, capeggiato dall’ex
capo dell’Uck – l’Esercito per la liberazione del Kosovo – Hasim Taci,
rimanderà la dichiarazione unilaterale che avrebbe fatto già questa settimana
se a vincere a Belgrado fosse stato il candidato del Partito radicale Nikolic.
Si tratta di qualche giorno in più concesso alle diplomazie che sono all’opera
per sbloccare lo stallo negoziale, per quanto si tratti di difficile impresa.
Boris Tadic è contrario all’indipendenza
del Kosovo come, tra l’altro, la maggioranza dei politici serbi. Lo aveva anche
ribadito varie volte in occasione dei comizi elettorali. Ma è altrettanto vero
che egli non avrebbe potuto fare diversamente per avere la possibilità di vincere le elezioni. In realtà, la sua posizione non è così intransigente come quella del
suo acerrimo avversario. Il presidente rieletto è favorevole al dispiegamento
della nuova missione di polizia, voluta dall’UE, che lui stesso ritiene un
elemento di garanzia indispensabile nello scenario attuale. Questo ha
anche provocato lo scontro con il suo alleato – il premier Kostunica – che si oppone all’iniziativa europea e ha negato a Tadic il proprio
sostegno per il secondo turno. Ora, la vittoria di Tadic ha
inevitabilmente spostato il baricentro a favore del presidente anche se privo
di poteri formali, secondo quanto previsto dalla costituzione.
Il risultato del voto di domenica
rappresenta dunque una boccata d’ossigeno nel momento in cui si decide il
destino dei Balcani occidentali e dell’intero continente. L’UE non vuole
perdere il controllo della situazione sul campo e si prepara ad inviare un contingente militare: sarà un
test fondamentale per valutare la sua capacità decisionale in materia di politica
estera. In più, Bruxelles si muove con cautela perché deve fare conti con
alcune voci dissenzienti all’interno della stessa Unione, come quelle dei Paesi
bassi, Spagna, Cipro e Romania. Accontentare la prima sarà relativamente più
facile perché l’Aja esige un rafforzamento da parte di Belgrado della
cooperazione con il Tribunale penale internazionale – una cosa che Tadic sembra
in grado di assicurare. Il problema è ben più complesso per quanto riguarda le
altre tre poiché la loro opposizione all’indipendenza di Pristina è una
questione di principio. Madrid, Nicosia e Bucarest infatti temono ripercussioni
al loro interno in quanto tutte e tre hanno a che fare con questioni di
irredentismo territoriale.
Sembra evidente che al centro della
soluzione del problema del Kosovo non sono tanto i legami religiosi e culturali
dei serbi con la regione né tanto meno le condizioni dei 200 mila serbi – o
forse meno – rimasti ancora lì. L’ostacolo è costituito dal timore sul piano
internazionale che l’indipendenza costituisca un pericoloso precedente che dia
sfogo a conflitti latenti e non, fuori e dentro l’Europa. E’ anche il fattore
principale che condiziona la ferma opposizione della Russia, la quale ha la
“grana” della Cecenia nel suo cortile interno. La vittoria di Tadic rappresenta
da questo punto di vista forse l’unica possibilità per rilanciare un ipotesi di
soluzione multilaterale. Se la Russia, infatti, non ha visto vincere il suo
candidato preferito – il radicale Nikolic – l’UE e gli Stati Uniti non hanno
l’interesse – come suggerisce l’ex ambasciatore USA presso l’ONU John Bolton
– a scatenare nuovamente conflitti e
provocare Mosca. Forse, come scriveva l’International Herlad Tribune a
dicembre, sarebbe meglio convocare una conferenza internazionale in cui i forti
decidessero, una volta per tutte, come trattare simili questioni.