Sergej Dovlatov, malinconia umoristica di un narratore a metà fra Usa e Urss

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Sergej Dovlatov, malinconia umoristica di un narratore a metà fra Usa e Urss

08 Febbraio 2009

Sellerio ha appena pubblicato “Il giornale invisibile” (180 pagg., euro 11), nono titolo dello scrittore russo Sergej Dovlatov nel catalogo dell’editore palermitano. Dovlatov è una vera prima lama, ormai riconosciuta come un classico della letteratura russa del ’900, ma anche come un fuori schema. Emigrato dalla appiccicosa censura dell’Unione sovietica anni ’70, in cui non era pubblicato, si trasferì negli Stati Uniti. Lì pubblicava, ma gli mancavano i suoi lettori naturali. E, attento alla condizione umana del singolo, al contrario di molti altri fuoriusciti non si accontentò mai della dicotomia inferno/paradiso applicata a Unione Sovietica e Stati Uniti. Dovlatov morì a soli 49 anni nel 1990, senza poter vedere la nuova Russia. Laura Salmon, slavista che insegna all’Università di Genova, è la traduttrice e l’“ambasciatrice”di Dovlatov nel nostro paese.

Professoressa Salmon, il tentativo italiano di rendere noto ai nostri lettori Dovlatov è stata una marcia lunga ormai una decina di libri. E’ un tentativo riuscito o c’è solo una piccola cerchia di dovlatofili?

Inizialmente c’è stato un passaparola. L’esplosione di notorietà è arrivata grazie a un paio di articoloni usciti intorno al 2000-2002 sulla grande stampa nazionale. Ma io credo che si tratti di un autore che è rimasto di nicchia, anche se una nicchia piuttosto vasta e tutto sommato sofisticata. Certo, però non riesco a spiegarmi come mai un milione di persone comprino Wladimir Kaminer in Germania (anche Kaminer è russo, ma scrive in tedesco e in Italia è tradotto da Guanda, ndr) che ha in qualche modo rubato qua e là i soggetti di Dovlatov…

Sì, leggendo Kaminer si sente un po’ lo stesso sapore.

Con una differenza drastica. Che Kaminer fa della parodia satirica molto light che vende molto bene perché così i tedeschi si sentono un po’ presi in giro, ma tutto sommato i russi sono presi in giro molto di più. Mentre Dovlatov ha questo umorismo filosofico che è di una struttura e di un livello completamente diverso. Poi Kaminer scrive in una lingua che non è sua e dal punto di vista letterario è di una povertà indescrivibile. Dovlatov ha invece avuto questa capacità unica di riuscire a scrivere l’oralità, di riuscire a recuperare la prosodia del discorso orale.

Kaminer ha un successo notevole.

Non so se sia un’ipotesi plausibile, ma in fondo questa capacità di Dovlatov di scavare nelle contraddizioni delle cose, il lasciare comunque il lettore con più dubbi che non certezze… insomma, se leggi un libro di Dovlatov hai conforto solo se sei addestrato a farti piacere il dubbio. Le persone vogliono sapere chi deridere, vogliono sentirsi in diritto di farlo e vivere la condivisione della derisione come un fatto gerarchico: io rido di te quindi sono superiore. Dovlatov trasforma questa verticalità in un rapporto orizzontale in cui tutti noi piangiamo e ridiamo insieme sulla questione umana. In questo periodo la gente ha bisogno di verità, viviamo un periodo artisticamente poco avanguardistico in cui c’è un ripiego sulle strutture già note, sulle certezze. Tutti questi remake, tutto questo rifare le cose… Comunque credo che Dovlatov stia diventando un po’ un classico, pur non avendo avuto grande risonanza.

Nella sua Nota a “Il giornale invisibile” si legge una polemica riguardo alle traduzioni americane di Dovlatov.

Più che polemica, un dolore personale. E’ stata un’operazione allucinante con il risultato paradossale che il momento di gloria che Dovlatov ha avuto, lo ha avuto attraverso traduzioni che negavano assolutamente l’operazione che lui faceva. Certo, così Dovlatov è riuscito a pubblicare sul New Yorker, ma trasformato.

E’ stato kaminerizzato?

Nelle traduzioni americane Dovlatov è stato trasformato in qualcosa di molto leggero con happy end. Mentre in ogni libro di Dovlatov senti questa amarezza… Forse però io ho la fortuna di vedere queste opere trent’anni dopo e questa distanza fa apprezzare di più l’operazione di Dovlatov.

Nelle sue opere, l’autobiografia, magari letterariamente riveduta e corretta, è importantissima. A ogni riga dello scrittore Dovlatov corrisponde una riga sullo scrittore Dovlatov.

Credo che parlasse di sé, come a dire “posso parlare solo di quello che conosco”. Anche se non è un tipo di autobiografia cronachistico o comunque fedele. In tre libri ha descritto l’incontro con la moglie in tre modi completamente diversi.

A un libro che raccoglie gli editoriali pubblicati su una rivista (“La marcia dei solitari”) corrisponde un libro delle stesse dimensioni che parla della rivista (“Il giornale invisibile”)…

Immagini il significato che questo tipo di scelta poteva avere in un mondo in cui la letteratura era intesa come espressione di un’ideologia collettivista. Dovlatov concentra tutto su se stesso riportando il discorso sulla piccolezza umana. Non è un se stesso che acquisisce importanza come eroe del romanzo. E’ un se stesso piccolo, parte di questo disastro che è la nostra vita. In questa scelta va individuata l’insofferenza dei censori che capivano quanto fosse incompatibile con l’ideologia antisoggettivista che garantiva il successo degli autori di regime.

Dovlatov racconta comunque di un homo sovieticus, seppur diverso da quello della propaganda. Un homo sovieticus spontaneamente cresciuto in quel contesto.

Sì, ma con la differenza l’homo sovieticus che la letteratura ufficiale voleva creare non esisteva, mentre quello di cui parla Dovlatov c’era davvero.