Serve una riforma che risolva davvero il conflitto tra magistratura e politica
26 Ottobre 2009
E’ di pochi giorni fa la notizia dell’iniziativa con cui il Popolo della Libertà ha proposto all’opposizione di avviare un confronto su un disegno di legge costituzionale di riforma dell’ordinamento giudiziario che preveda la separazione delle carriera tra publici ministeri e giudici, muovendo dai risultati della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da Massimo D’Alema nel 1997.
Pur mancando ancora un testo, non è difficile immaginare che la proposta in corso di elaborazione riguarderà anche il tema della composizione e delle funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura e l’ipotesi, adombrata più volte anche da esponenti della sinistra, di una Corte di giustizia per gli illeciti disciplinari dei magistrati, svincolata dal Csm.
D’altronde, il testo elaborato dalla Commissione Bicamerale prevedeva l’articolazione del Consiglio superiore della magistratura in due sezioni, una per i giudici e una per i magistrati del pubblico ministero, una diversa proporzione tra componenti togati e laici rispetto a quella attualmente prevista dalla Costituzione (tre quinti e due quinti invece di due terzi e un terzo) e l’istituzione di una autonoma Corte di giustizia disciplinare della magistratura, competente nei riguardi non solo dei magistrati ordinari, ma anche di quelli amministrativi, e formata da nove membri, eletti tra i propri componenti dai Consigli superiori della magistratura ordinaria e amministrativa.
Va notato, peraltro, che rispetto all’ipotesi di Corte disciplinare formulata in seno alla Commissione Bicamerale, le più recenti proposte hanno accentuato l’autonomia di quell’organismo rispetto a quello di autogoverno, ipotizzando che i suoi componenti possano essere designati dal Presidente della Repubblica o secondo un meccanismo analogo a quello con cui vengono attualmente nominati i giudici della Corte Costituzionale.
A prescindere da ogni altra considerazione, c’è però da chiedersi se una riforma costituzionale di questo tipo sia effettivamente in grado di risolvere il grave problema italiano del “conflitto” tra magistratura e politica, rimediando anche ai fenomeni di degenerazione correntizia tante volte denunciati dagli stessi magistrati.
In realtà, qualsiasi riforma costituzionale si intenda attuare, non bisognerebbe dimenticare che uno dei principali obiettivi da perseguire dovrebbe essere quello di una rigida “separazione” della giurisdizione rispetto alla politica.
A questo proposito Piero Calamandrei, molto acutamente, notava che "se il nostro ordinamento giudiziario riesce a proteggere il giudice contro le vendette, non riesce a proteggerlo contro un’arma più insidiosa e più penetrante, cioè contro i favori dei governanti ". Per questa ragione per rendere effettiva l’indipendenza del magistrato sarebbe necessario impedire, una volta per tutte, che l’esercizio delle funzioni giurisdizionali possa essere “premiato” con una candidatura in Parlamento e superare l’idea, oggi invece molto diffusa, di una naturale contiguità tra magistratura e politica.
Se, come ha ricordato qualche tempo fa lo stesso Presidente della Repubblica, è necessario restituire piena autorevolezza al Consiglio Superiore della Magistratura, riaffermando rigore, misura, obbiettività e imparzialità come criteri di esercizio delle sue funzioni, è anche vero però che nessuna riforma normativa sarà mai in grado di assicurare il rispetto da parte del magistrato delle regole di deontologia, in mancanza di una adeguata formazione etica maturata nel corso degli studi.
Ragioniamo, quindi, sulle riforme, anche costituzionali, da realizzare nel settore della giustizia, ma rendiamoci conto che alla base dei tanti problemi italiani c’è, soprattutto, una profonda crisi culturale ed etica.
Stefano Amore, vice-Segretario di Magistratura Indipendente