Sessantennale, la Cina celebra Mao ma si dimentica di Deng Xiaoping
01 Ottobre 2009
C’era tutto, ma proprio tutto: l’abito nero in pieno stile maoista indossato dall’attuale Presidente Hu Jintao, le belle milizie femminili con berretto e divisa rosa shocking, i missili balistici Dongfeng 21 (tanto per ricordare agli americani che se intendono immischiarsi in un possibile, ma poco probabile, sbarco contro ‘la provincia ribelle” di Taiwan, sarebbe bene pensarci due volte), tutto magnificato da livelli di sincronizzazione umana da non lasciare spazio al minimo errore, se non, almeno, ad una fanciullesca incredulità da parte di chi guarda.
Le celebrazioni per il sessantesimo anniversario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese hanno appena avuto luogo in una Beijing blindata e colorata.
Chissà se uno dei pochi occidentali ben accetti nell’entourage di Mao nel oramai lontano 1949, il giornalista statunitense Edgar Snow, avrebbe scommesso sulla durata del regime la cui fondazione egli testimoniò. A distanza di sessant’anni da quel 1° Ottobre 1949 che mise fine alla guerra fratricida che oppose nazionalisti e comunisti, conclusasi con la vittoria di questi ultimi, e che avrebbe consegnato alla storia, contro ogni pronostico, la vittoria dell’Armata di Liberazione Popolare sulle truppe di Chiang Kai-shek, il regime di Beijing, condotto oggi da Hu e da Wen, festeggia la ribalta dell’impero di mezzo in un appena iniziato secolo che ne risancirà l’egemonia.
Il dittatore Mao Zedong avrebbe dato vita, non solo alle ben note criminogene utopie che tra il 1949 e l’anno della sua morte, il 1976, avrebbero generato fame, distruzione e morte nella popolazione cinese, ma anche apportato il proprio personale contributo a profonde trasformazioni sociali: l’emancipazione femminile, la scolarizzazione delle masse contadine cinesi che oggi, dopo essere state avviate nell’ultimo sessantennio ad un massiccio processo di urbanizzazione (a dire il vero e non è un caso, è proprio dopo la morte di Mao che il governo di Beijing comincerà effettivamente a dare libertà di movimento ai propri cittadini sul territorio della Repubblica Popolare), capace di mescolarsi con lo spirito di imprenditorialità che nei secoli ha connotato l’animo profondo dei sudditi dell’impero di mezzo (vale la pena riportare allo spirito le cronache dall’allora Khanbaliq, l’odierna Beijing, di quel veneto di Marco Polo); questa la miscela prodigiosa che permette finalmente ai cinesi di andarsi a prendere il loro miracolo economico, come testimoniato da quel risparmio privato crescente, figlio della nascita di un ceto medio di più di trecento milioni di cittadini cinesi.
In attesa ovviamente di una rivoluzione industriale a connotazione cinese, che non tarderà ad avvenire, sempre che il regime politico resti stabile, e compia scelte ‘pragmatiche’, come ebbe a dire l’economista Justin Yifu Lin, oggi chief economist alla World Bank, riferendosi alla possibilità della Cina di mantenere i suoi ritmi di crescita.
Ma non si incappi in errore: il regime di Beijing odierno è molto meno figlio del grande timoniere di quanto i più non credano, e soprattutto, più di quanto l’attuale leadership cinese non sia disposta ad ammettere pubblicamente. Di Mao Zedong rimane solo solo la retorica della fondazione, l’icona inamovibile della pangenesi ideologica del socialismo cinese. Val la pena riconoscere, oggi ancor di più, nel giorno del regime, che il grande uomo della Cina degli ultimi sessant’anni fu Deng Xiaoping. Non un democratico, nel senso occidentale del termine, ma un riformatore che lasciò alla Cina il più significativo lascito in questi ultimi sessant’anni di storia.
Se oggi alla Cina che tutti conosciamo e che sempre di più entrerà nelle nostre case, si può attribuire l’epiteto politologico, e ossimorico a dire il vero, di ‘regime socialista a economia di mercato’ è proprio grazie al ‘grande riformatore’ come oggi è magniloquentemente definito Deng. Fu proprio lui a dire: ”Non è importante che il gatto sia bianco oppure nero: l’importante è che il gatto prenda il topo!”. Non mentendo a sé stesso, non sperando in alchemiche soluzioni di marxismo in salsa cinese, Deng apriva cosi le porte, con una propaganda mite e sincera, alle libertà economiche per i cinesi, e ad un fase di prosperità di cui si fatica a intravedere la fine, tali sono le possibilità di quel miliardo e più di cinesi, che oggi vivono e sfidano il mondo. Lo sfidano non più con i toni belligeranti a cui ci aveva abituato, decenni or sono, la retorica militarista sovietica dello scontro finale, bensì sul nostro terreno, quello della scienza, dell’educazione e della tecnologia.
Il ruolo politico internazionale della Cina, l’emergenza di una tecnologia militare capace apparentemente di rivaleggiare con l’Occidente e con i più diretti competitori internazionali, la produzione di prodotti ad alto contenuto tecnologico made in China (ieri appannaggio unicamente della comunità delle nazioni occidentali), milioni e milioni di ragazzi cinesi che ogni anno escono dalle università della Repubblica Popolare, sanciscono oggi, nel giorno della parata, della fiera di paese che si fa globale, dei leader comunisti sorridenti e timorosi che il loro consenso possa sfumare, che l’ascesa di un puro pensiero cinese e di un modo di vivere che per il momento emula il nostro ma che non tarderà a creare i propri modelli e a manifestarsi in tutta la sua forza demografica e tecnologica, è alle porte. E viva allora la Cina, sperando che sia prossimo il giorno di un leader capace di fare in materia di libertà civili e politiche, cio’ che Deng Xiaoping, con lungimiranza, fece in materia di libertà economiche all’inizio degli anni ’80.