Sessantotto, la contestazione che attraversa l’Europa

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Sessantotto, la contestazione che attraversa l’Europa

02 Settembre 2007

Accaddero tante cose negli anni ‘60: il muro di Berlino nel ‘61, l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia nel ‘62, l’inizio della guerra in Vietnam nel ’64, la rivoluzione culturale in Cina nel ’66 e nel ’68, mentre a Roma e Milano si occupavano le università, contemporaneamente a Praga scoppiava la rivolta  contro Mosca guidata da Alexander Dubček. La primavera di Praga ha  facce sorridenti. La notte del 20-21 agosto Praga è invasa dai carri armati russi. Quell’agosto, chi rimase incollato alla tv in bianco e nero a guardare quei ragazzi tentare di parlare ai russi nei carri armati capì che qualcosa non tornava nella storia che ci raccontavano. Nel 1985  Milan Kundera raccontò quell’invasione: Dubček, il presidente di uno stato indipendente, arrestato nel suo paese, condotto tra le montagne dell’Ucraina, minacciato di fare la fine di Imre Nagy. Poi il discorso alla radio al ritorno da Mosca con la voce tremante, un uomo umiliato a parlare a una nazione umiliata. Il 19 gennaio 1969 Jan Palach si bruciò, ma non divenne un’icona supermediatizzata come il Che. Una faccia bruciata non è fotogenica, Praga aveva perso, gli americani erano impantanati in Vietnam e comunque non sarebbero andati ad aiutare Dubček. La Cecoslovacchia scomparve dai media. Nessun carro armato americano era arrivato a Roma a reprimere le proteste degli studenti e si capì di vivere in un paese libero, ma non tanto da protestare per Praga.

I russi erano forti, avevano la bomba atomica, andavano sulla luna e noi avevamo il partito comunista più forte dell’Occidente. Praga scomparve dai media, ma imbarazzava il Pci, forse lo spaventava. Praga non poteva essere ignorata e deve averlo pensato anche Rossana Rossanda, se la rivolta di Ungheria le fece venire i capelli bianchi. Si sarà anche ricordata della rivolta del giugno e del luglio del 1953 degli operai edili di Berlino est contro i russi. La rivolta si estese a tutta la Germania est e lo sciopero bloccò tutti i centri industriali, le grandi città e fu schiacciata solo con i carri armati russi. Ancora oggi non si conosce il numero delle vittime: ufficialmente sono 51, ma dai documenti resi accessibili dal 1990 si sa che i morti furono almeno 125. In memoria della rivolta degli operai edili di Berlino est, la Germania ovest dichiarò festa nazionale il 17 luglio fino a quando nel 1990 la sostituì col 3 ottobre, la data della riunificazione. Come nel caso della rivolta di Berlino est, anche nella rivolta d’Ungheria, gli Stati Uniti non intervennero perché vi era il pericolo di una guerra  nucleare. Dal ’61 a Berlino c’era il muro, ma i muri possono cadere e a questo deve avere pensato anche Rossanda. Il 23 giugno del 1969 uscì la rivista “il manifesto” e nel secondo numero quel titolo strappalacrime “Praga è sola”. In tutto quel proliferare di movimenti e quotidiani extraparlamentari, che prendevano le distanze dal “socialismo reale”, tutto cambiò in un attimo e fu necessario imparare la nuova lingua, perché ormai espressioni come “dialettica della storia” e “lotta di classe” erano diventate quasi obbligatorie. L’americano James Burnham in “The Machiavellians” del ’43 aveva teorizzato la scomparsa dell’impero britannico, l’egemonia russa in Europa, il mondo diviso in tre superpotenze. Oceania, Eurasia, Estasia si sarebbero combattute per il dominio del mondo, ma nessuna lo avrebbe mai conquistato. Nel ‘47 Burhnam pubblicò “The struggle for the world” nel quale teorizzò la necessità della guerra preventiva contro la Russia sovietica prima che arrivasse alla bomba atomica e la formazione di un impero americano alleato a una federazione europea. E’ importante ricordare che Orwell, decisamente anticomunista, si rifiutò però di mettere fuori legge i comunisti inglesi e in Second thoughts on James Burnham del ‘46 arrivò a ipotizzare che il regime sovietico sarebbe potuto diventare più liberale e meno pericoloso con l’avvicendarsi al potere di una nuova generazione. George Orwell era anticomunista, è nota la famosa Orwell’s list, la lista dei criptocomunisti compilata per i servizi segreti del Foreign Office, e di tutto può essere accusato tranne che di filosovietismo o di filocomunismo. Come è noto però, nel  celebre 1984 del ‘49  il protagonista Winston Smith vive a Londra, la terza provincia più popolosa di Oceania, la cui caratteristica principale è trasformare gli alleati ufficiali in nemici, mentre il nemico contingente è sempre il male assoluto. In questo scenario dove vige una perfetta centralizzazione del potere, lo scontro finale tra le tre superpotenze non può mai avvenire per effetto della deterrenza nucleare e lo stato di guerra continua è lo strumento per il completo controllo dei cittadini. 1984, che rovesciato diventa 1948, è scritto dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma è ambientato in una Londra ancora in guerra e governata da un regime dove la psicopolizia è sempre all’erta, la storia è riscritta continuamente dal partito, la lingua è una neolingua modificata dai funzionari del ministero della Verità. Londra non è governata dal nazismo, né dal comunismo, ma da un nuovo totalitarismo. L’oligarchia che domina Londra in 1984 è composta – come in The Managerial Revolution di Burnham del ’41 – di burocrati, tecnici, sindacalisti, pubblicitari, insegnanti, giornalisti e politici di professione. In 1984 Orwell riprende tesi di The Machiavellians di Burnham, per il quale la democrazia può essere usata come strumento di controllo sui cittadini, dando loro l’illusione di scegliere i governanti. Orwell non lo dice, ma si capisce che anche Eurasia ed Estasia vivono in uno stato di guerra fredda permanente e hanno i loro due minuti di odio al giorno. Ovunque, quindi, nel mondo si combatte contro un impero del male. Nel 2003, nel centenario della nascita di Orwell, si è erroneamente interpretato 1984 in funzione antiamericana, con gli Stati Uniti impero planetario di Oceania dopo la fine dell’Urss. In realtà, se Orwell polemizza contro Oceania è perché Londra è diventata una provincia degli Stati Uniti e anche per questo mentre compilava la lista dei criptocomunisti per i servizi segreti britannici, si opponeva alla guerra preventiva di Burhnam contro la Russia sovietica e di mettere fuori legge i comunisti inglesi. Questo Orwell schizofrenico stava lottando per l’Inghilterra. 1984 è anche influenzato dalla teoria di The Machiavellians, dove Burnham con Pareto, Mosca, Sorel e Michels afferma che in qualsiasi società – quale sia la formula politica – sono sempre le oligarchie a governare e questo meccanismo è regolato dalla sola circolazione delle élites, mentre le ideologie sono uno strumento di lotta per il potere delle oligarchie. Però, all’americano  Burnham, per il quale la storia è lotta per il potere, Orwell ribatté che il potere per cui gli uomini e gli stati lottano è diverso. In fondo,  l’America era stata fondata e costruita da quei puritani cacciati dalla Gran Bretagna e tornare a “salvare” l’impero contro cui avevano combattuto era stata una bella soddisfazione.

Orwell non era affatto un sostenitore dell’impero britannico, era preoccupato dal fatto che gli Stati Uniti si fossero divisi il mondo con la Russia sovietica e avessero fatto dell’Inghilterra un paese dove dominava il Left Book Club, l’intellighenzia di sinistra che stroncò 1984 e La fattoria degli animali con l’accusa di anticomunismo. Per certi versi, quando Niall Ferguson rimprovera agli Stati Uniti di non avere una reale capacità imperiale, li rimprovera di non essersi conquistati  un impero da soli e di non essere in grado di dare ordine al mondo. Quando Strauss criticava l’America delle proteste studentesche e delle manifestazioni contro il Vietnam, la paragonava alla repubblica di Weimar, uno stato fondato sul relativismo, che permetteva l’esistenza di movimenti politici nati con il dichiarato obiettivo di distruggerlo. Anche gli Stati Uniti dopo gli anni ’70, pur non avendo un terrorismo politico interno come quello italiano, sono radicalmente cambiati e le difficoltà che incontra Bush a casa per la guerra in Iraq mostrano il cambiamento subito dall’America dai tempi della prima guerra e della seconda guerra mondiale. Certo, se la tv avesse mostrato ogni giorno alle famiglie a pranzo la guerra di secessione come la guerra in Vietnam, gli Stati Uniti non sarebbero neppure nati.

Nell’ultimo numero di Policy Review,  Robert Kagan,  in End of dreams, return of history, afferma che la storia non è finita, gli Stati Uniti sono ancora il numero uno del pianeta, ma le nazioni sono ancora forti come le loro ambizioni e, oltre la Russia e la Cina, anche l’India, l’Iran e il Giappone lottano per avere status e influenza nel mondo. Potremmo anche chiederci se i movimenti di contestazione che attraversarono l’Occidente nel ’68 e negli anni ’70, sia pure diversi da paese a paese,  in genere descritti come un risultato della guerra fredda tra Usa e Urss, non fossero invece il risultato delle difficoltà, soprattutto in Europa, di vivere sotto l’ala delle due superpotenze. Infatti, vi furono rivolte in Europa occidentale nel ’68 e  ve ne furono in Europa orientale a cominciare da Berlino est nel ‘53, all’Ungheria, fino a Praga: i paesi del blocco sovietico si ribellarono in nome degli ideali della democrazia occidentale, mentre quelli sotto l’ombrello della Nato in nome del comunismo e contro l’imperialismo americano. Potremmo pure domandarci se le motivazioni ideologiche delle varie rivolte, non possano anche essere spiegate come strumenti di lotta delle élites per il potere politico.

Prima del ’68 l’Italia dal ’62 aveva governi di centrosinistra. L’italiano medio non se la passava male, aveva la 500, gli elettrodomestici, la tv, le autostrade, le ferie al  mare: stava meglio dei russi sempre in fila per comprare qualsiasi cosa e, tutto sommato, anche dell’americano medio senza ferie. L’Italia si era rimessa in piedi dopo la guerra, si destreggiava con americani e russi, con inglesi e francesi nel Mediterraneo. La Gran Bretagna nel ’48 si era opposta all’inclusione dell’Italia nel Patto Atlantico, ma eravamo geopoliticamente interessanti per gli americani che ci assicuravano la difesa. Avevamo anche il più grande partito comunista dell’Occidente, e le turbolenze interne erano probabilmente considerate dall’establishment italiano un effetto collaterale della politica estera. L’establishment italiano aveva affrontato la sconfitta bellica dimostrando di seguire in modo seppur confuso il paradigma della ragion di stato. Un partito comunista alleato dell’Urss parve l’unica carta in politica estera dopo l’8 settembre per controbilanciare le dure condizioni anglo-americane dell’”armistizio”. Il re, Badoglio e il loro entourage  si aspettavano di essere ricevuti a braccia aperte dai nuovi alleati. Sentendosi invece trattati da sconfitti, di nascosto agli anglo-americani il governo Badoglio inviò Renato Prunas da Vyshinskij per riprendere le relazioni diplomatiche con la Russia (Gianluca Borzoni in Renato Prunas diplomatico. 1892-1952, Rubbettino, 2004). Prunas incontrò Vyshinskij il 10 gennaio ‘44 a Brindisi, enumerò le umilianti condizioni in cui i britannici tenevano l’Italia, gli fece capire che la Russia avrebbe potuto avere una presenza stabile in Italia e trattò il ritorno di Togliatti, che comportava  vantaggi per Vittorio Emanuele III alla cui legittimazione nel nuovo corso politico si opponevano i partiti antifascisti. Prunas forse non sapeva chi era Vyshinskij, responsabile dei feroci processi  farsa staliniani, né dei gulag in cui furono eliminati 18-20 milioni di russi, compreso un numero spaventoso di bambini.

Croce ricevette Vyshinskij l’11 gennaio. Sapeva perfettamente chi era e cosa era accaduto  in Russia negli anni ’30 da Gorkij,  a Capri per lunghi periodi,  e da Zweig, l’unico intellettuale a visitare la Russia e non lasciarsi abbindolare dalle scenografie sovietiche. Nel suo diario definì Vyshinskij imperscrutabile, non capiva perché Vyshinskj temesse tanto l’effetto negativo sull’esercito e la marina dell’abdicazione del re e gli spiegò che anzi avrebbero combattuto con più entusiasmo se Vittorio Emanuele III avesse abdicato. Croce non desiderava soltanto salvare la monarchia, ma un nuovo re giovane e non compromesso  a capo dell’esercito. Non era forse riuscito il cardinale Ruffo a inventarsi un re, a far combattere i cafoni e a tenere a bada fra’ Diavolo?  Consegnò a Vyshinskij un suo estratto sul comunismo, le figlie balbettarono qualche parola in russo, Vyshinskij definì capitalista la casa dove abitava Croce. Scrisse di non sapere cosa avesse in mente quel russo. Nel settembre ‘44 a Roma il direttore di Regina Coeli fu fatto linciare dalla folla e gettato nel Tevere. Sconvolto dall’assassinio, Croce scrisse nel diario: “i comunisti sono macchine senza luce e senza palpiti nel cuore”.  Dopo il 25 aprile fu lasciata mano libera di fare scorrere sangue. Qualche migliaia di cadaveri era necessaria anche per dimostrare all’estero di essere capaci di fare pulizia da soli. Il Pci diventò il secondo partito italiano della prima repubblica e se non fu travolto  dalla fine dell’Urss è anche per la “rivoluzione” politica e mediatica del lungo Sessantotto.

 Il 12 dicembre del 1969, il giorno dell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, siamo in piena guerra del Vietnam e l’America fino al 1975 è quasi sull’orlo della guerra civile. Per la politica estera italiana è  un periodo vivace. Come ricorda Virgilio Ilari (Guerra Civile, Ideazione Editrice, 2001) il colpo di stato in Libia aumentò le tensioni italo-britanniche relative al problema dell’ indipendenza di Malta e inoltre, il rovesciamento di re Idris fu preparato nell’ambasciata di Libia a Roma. La conseguenza fu l’espulsione delle basi americane e britanniche, annunciata dal colonnello Gheddafi il 12 dicembre 1969. Gheddafi espulse anche gli ex-coloni italiani, ma fu produttivo per  la cooperazione italo-libica in campo petrolifero.  Il termine “strategia della tensione” fu coniato a Londra dall’Observer, due giorni dopo piazza Fontana. Gli inglesi non hanno mai amato Gheddafi per comprensibili motivi, ma ipotizzare una qualche responsabilità inglese in piazza Fontana è fuori luogo anche perché nel Mediterraneo vi erano state tensioni pure con altri paesi. L’Italia aveva sostenuto l’indipendenza algerina contro i francesi e negli anni ’70 e ‘80 ci restituirono il piacere dando asilo ai brigatisti e rifiutandone l’estradizione. L’espressione “strategia della tensione” in italiano – come sottolinea Ilari – è una formula generica e finisce per essere usata come una verità ovvia. Per la sinistra la verità ovvia è la Cia, i fascisti, la Dc anticomunista e i servizi segreti, lo stato a fare le stragi per incolpare i comunisti e danneggiarne l’immagine per impedirne l’ingresso al governo. Questa formula è usata a lungo da Lotta Continua al manifesto all’Unità  per i delitti commessi dalle Brigate rosse, che venivano attribuiti ai fascisti anche quando venivano uccisi fascisti, come nel caso dei due missini di Padova ammazzati dalle Br. Fino al rapimento Moro, il Pci e la sinistra extraparlamentare non ammettono pubblicamente che le Brigate rosse siano di sinistra: durante il rapimento Moro, il Pci si schiera contro la trattativa come la Dc e la sinistra extraparlamentare inalbera la formula “né con lo stato, né con le bierre”, ma aspetta il crollo della Dc. Non bisogna dimenticare che le Brigate rosse continuano ad ammazzare fino al 1985. C’è uno spartiacque insormontabile  tra chi considera il cadavere di Moro nella Renault di via Caetani l’atto di un guerra assurda e chi nella morte di Moro vede addirittura un passo avanti nella conquista del potere.

L’attentato di piazza Fontana creò il “mostro” Calabresi. Forse più che un capro espiatorio, Calabresi fu l’occasione giusta nel momento giusto per inventarsi un nemico e creare il paradigma dello stato stragista, quello da colpire al cuore poi per le Br o da“democratizzare” e sindacalizzare per il Pci. Se rileggiamo Lotta Continua e tutta quella schiera di intellettuali che le stavano intorno e firmarono il manifesto che condannò a morte Calabresi, ci rendiamo conto che la campagna contro il commissario, fu costruita da cervelli che volevano trasformare la rivolta del ’68 in “rivoluzione”. Col delitto Calabresi inizia il terrorismo che insanguinerà tutti gli anni ’70 e buona parte degli anni ’80. 

Il nostro lungo Sessantotto supermediatizzato non fu opera di una generazione, ma di pochi leader e militanti decisi e di una lunga e paziente costruzione mediatica a cui collaborarono accademici, scrittori, registi e giornalisti illustri. Tanti bei nomi pronti a firmare nel 1971 manifesti di solidarietà a Lotta Continua, ad affermare «quando essi gridano “lottano di classe, armiamo le masse”, lo gridiamo con loro. Quando si impegnano “a combattere un giorno con le armi in pugno contro lo stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo con loro». Questi bei nomi, filosofi, storici, architetti, giornalisti, registi, non erano ventenni, erano navigati borghesi e non volevano armare le masse, né rovesciare il capitalismo, volevano “gestirlo”, come si diceva, e “democratizzare” lo stato, ovvero dirigerlo secondo le proprie logiche. Più della forza delle armi, contava la capacità di creare attraverso i media l’immagine dello stato cattivo e fazioso, con poliziotti assassini, spie della Cia e fascisti.  Basta pensare a film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto del 1970 e Cadaveri eccellenti del 1975. Nel primo, un commissario di polizia uccide l’amante che lo tradisce con uno studente contestatore e non si cura di nascondere le tracce per puro gusto del potere, nel secondo un misterioso assassino fa strage di magistrati per fare ricadere la colpa su gruppi estraparlamentari e screditarne l’immagine pubblica. Nel 1992 i magistrati del pool di Milano sono ormai diventati perfetti magistrati “democratici” e i nuovi eroi “democratici” nel 2001 invitano a “resistere, resistere, resistere”.

La rivoluzione era compiuta, talmente compiuta che la caduta dell’Urss non ha comportato altro problema al Pci se non di cambiare nome. Quando il Pds crede di essere rimasto l’unico vincitore, di andare al potere e fare anche la destra ( d’altronde Mussolini era un socialista e venne scelto dall’establishment perché era in grado di controllare le masse e fare una politica di destra) appare l’osso duro Berlusconi e quell’Italia a cui il Corriere e la Stampa,  non solo Repubblica & C. riservarono definizioni poco gradevoli. Una sinistra che per decenni aveva teorizzato la necessità del cambiamento dal basso, all’improvviso diviene élitista, biasima il principio della sovranità popolare, dubita perfino della democrazia, e denuncia il pericoloso populismo del centrodestra. Come se il populismo non facesse parte della storia della sinistra, che prometteva terre ai contadini, fabbriche agli operai e cavalcava ogni protesta pur di intruppare gente. Ha ragione Claudio Pavone a definire l’anomala guerra civile italiana anche una “guerra di classe”, anche se sarebbe stato più “scientifico” aggiungere che fu dopo il 25 aprile che l’avanguardia della classe operaia incitò alla soppressione fisica di piccoli e medi proprietari terrieri, come accadde in Emilia, o di borghesi con un qualche prestigio professionale. E proprio a quella “guerra di classe” a cui si richiamavano  Lotta continua e le Brigate rosse si oppose la grande parte di elettori del Pci che rifiutarono il terrorismo.

Occorre pensare al tipo di  vittime scelte dalle Brigate rosse dopo l’assassinio di Moro  per capire cosa unisse uomini diversi per professioni e idee come l’operaio comunista Guido Rossa, il giurista cattolico Vittorio Bachlet, il giornalista socialista Walter Tobagi, l’economista Ezio Tarantelli, ucciso nel 1985. Questi uomini rappresentavano forse senza saperlo – o forse invece lo sapevano o lo speravano – la maggioranza degli italiani e avevano in mente una certa idea dell’Italia che non solo si opponeva alla violenza, ma voleva modernizzare il paese e la sua cultura politica.  Bachlet, Tobagi, Tarantelli non accettavano la “guerra di classe” e non l’accettava  l’operaio Guido Rossa, che denuncia i terroristi perché non sente di appartenere a una “classe” con diritto di decidere i dirigenti dell’azienda dove lavora. Non è soltanto il rifiuto della violenza, è una concezione del mondo. Guido Rossa è un operaio metalmeccanico dell’Italsider a Genova, ha una famiglia, una bimba, sa di vivere in un paese dove potrà fare studiare sua figlia e non crede alla rappresentazione della realtà della retorica brigatista. Walter Tobagi viene da una famiglia che ha fatto sacrifici per farlo studiare, ha scritto di sport sulla Zanzara, fa il giornalista al Corriere e combatte il terrorismo perché non sente di appartenere a una “classe”. E’ la sua intelligenza, i sacrifici e l’affetto dei suoi genitori che gli hanno permesso di studiare, è un giornale ad avere riconosciuto il suo merito e ad avergli offerto il lavoro che gli piace, è la sua capacità di amare che gli ha fatto costruire una  famiglia. Non va dimenticato che  leader e dirigenti del Pci cominciarono a condannare il terrorismo col rapimento Moro, quando capirono che se non lo avessero fatto sarebbero stati abbandonati dalla maggioranza degli elettori. Questo dimostra che le ideologie, anche una ideologia forte come quella marxista divenuta imago mundi in un nazione giovane e fragile come l’Italia, non sono il grado di affermarsi se contrastano con i valori di una cultura secolare.