Sessantotto, questo sconosciuto

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Sessantotto, questo sconosciuto

28 Luglio 2007

Il cerchio si sta lentamente stringendo intorno al Sessantotto. Da ultimo
ne ha parlato Benedetto XVI a Lorenzago, vedendovi un momento di grave crisi
della cultura occidentale. Nella patria del Maggio rivoluzionario, Sarkozy ha
stravinto le elezioni rinnegandolo. L’anno prossimo cade il suo quarantesimo
anniversario, e sarebbe davvero il caso di cogliere l’occasione per aprirci su
un ragionamento serio. Soprattutto nel nostro paese, dove la riflessione
storiografica (meno quella politologica) è per tanti versi ancora troppo
debitrice della memorialistica – che un suo valore lo ha senz’altro, ma che è
pure troppo asservita alla logica del “formidabili quegli anni”.

Il Sessantotto è stato un fenomeno di enorme complessità, di portata
mondiale e dai caratteri al contempo politici, culturali e sociali. Dipingerlo
a tinte soltanto fosche, o tutte brillanti, sarebbe a mio avviso un’operazione
intellettualmente scriteriata. Poiché però questo non è un ampio ed equanime
volume, ma un breve articolo polemico, credo di potermi permettere di isolare
un solo aspetto del Sessantotto e di darne un giudizio inequivocabilmente
negativo. Osservata nella prospettiva che ho arbitrariamente prescelto – e che
è tutt’altro che secondaria, però – l’insurrezione dei tardi anni Sessanta ha
rappresentato in Occidente l’ultimo (finora?) episodio della febbre
rivoluzionaria cominciata nel 1789.

Considerando il Sessantotto in questa forma, e soprattutto considerando i
suoi esiti, possiamo arrivare a qualche conclusione interessante sullo stato
odierno della cultura occidentale, soprattutto rispetto al grande dibattito sui
fondamenti valoriali ultimi che Papa Ratzinger ha tanto stimolato. I detrattori
di qualsiasi tentativo di ancorare l’Occidente a un patrimonio dogmatico seppur
minimo sottolineano in genere la natura tendenzialmente fondamentalistica di
quei tentativi. Tanto da arrivare nei casi più polemici e intellettualmente
grossolani ad assimilare la Chiesa romana di Benedetto XVI all’islamismo
radicale. A prescindere da queste assurdità, nella sua forma più neutrale la
loro tesi potrebbe essere espressa così: il dogma seppur minimo è portatore di
autoritarismo quando non totalitarismo; la democrazia liberale si fonda invece
sul dubbio relativistico.

A chi ragiona in questo modo sfugge un passaggio a mio avviso non proprio
secondario: tutte le rivoluzioni utopiche dell’età contemporanea dimostrano in
realtà quanto stretto parente il fondamentalismo sia del nichilismo. Per due
ragioni. In primo luogo, perché al totalitarismo si può giungere tanto da una
fede assoluta quanto dalla radicale mancanza di fede. Parlando ai
rappresentanti della stampa il 15 marzo del 1933, Joseph Goebbels lo teorizzò
esplicitamente: i giornalisti dovevano scrivere quel che il regime diceva loro
di scrivere non perché fosse vero, ma perché il nazismo era al potere. Poiché
l’oggettività non esiste e tutto è tendenzioso – queste le parole esatte del
ministro di Hitler –, tanto valeva chinarsi alla tendenziosità del più forte.
Il ragionamento, del resto, fila anche in astratto: dall’impossibilità di
raggiungere la verità posso derivare logicamente il diritto di ciascuno a
seguire la propria verità; ma posso anche derivarne l’opzione che sia il più
potente a imporre la propria verità a tutti gli altri. Il fondamentalismo è
prossimo al nichilismo, in secondo luogo, perché nel momento in cui la loro
utopia manca di realizzarsi anche i totalitarismi che partono da un fede
assoluta sfociano nel vuoto di ogni fede. È il caso del comunismo: i
bolscevichi accumularono potere assoluto per costruire la società senza classi;
ma l’obiettivo sfumò via via in un futuro sempre più distante e indeterminato,
e il potere assoluto rimase ideologicamente appoggiato al nulla, ovvero fine a
se stesso.

Ultima insurrezione dell’Occidente, avvenuta quando le utopie dell’età
contemporanea le aveva già bruciate la storia, il Sessantotto mostra con grande
chiarezza la propensione delle palingenesi rivoluzionarie a sfociare nel
nichilismo. “Vietato vietare”, recitava uno dei più noti slogan di quella
stagione: espressione perfetta della sua forza distruttiva, del suo desiderio
di farla finita coi vincoli e le regole del vecchio mondo. Già: ma proponendo
che cosa, in cambio? Proponendo magari una nuova forma di comunismo, che non
potendosi più ricorrere all’Unione sovietica era esemplificata nella Cina di
Mao – ma poteva esserlo soltanto perché se ne aveva un’immagine tragicamente
distorta. O più spesso non proponendo nulla affatto: la rottura per la rottura,
la distruzione per la distruzione, nella convinzione che sulle macerie
dell’Antico Regime non fosse più necessario edificare alcunché – che le macerie
già fossero la libertà. Un’utopia della destrutturazione sociale, della
solitudine radicale, del desiderio disincarnato, dell’assenza di regole e istituzioni,
del rifiuto radicale della storia, che se si fosse realizzata avrebbe
necessariamente condotto a un esito totalitario: alla costruzione di una ferrea
struttura di potere legittimata dall’obiettivo della distruzione del potere.

Questo Sessantotto, per fortuna, non ha vinto. Ma la fessura che ha
aperto nelle radici dell’Occidente è stata profonda. Ha lasciato in eredità al
nostro mondo la tendenza robusta a rifiutare a priori qualunque vincolo
venga dal passato, nella speranza che l’umanità possa vivere senza vincoli; e
l’incapacità di vedere come, non potendo l’umanità viverne senza, se li si
rifiuta nella loro forma tradizionale e visibile i vincoli ricompaiono
surrettizi, nascosti al discorso pubblico, liberi da regole e valori, e perciò
assai più pericolosi. Tendenzialmente totalitari, appunto.

Sosteneva Augusto del Noce che il totalitarismo novecentesco fosse il
reagente necessario a ricondurre il liberalismo e il cattolicesimo su un
terreno comune. Il nazifascismo e il comunismo hanno in effetti fatto capire
alla Chiesa di Roma che i sistemi politici non sono tutti uguali, e che un
regime di libertà è quello che meglio di ogni altro consente una scelta
religiosa profonda, sincera e consapevole. Tanto liberalismo stenta invece a
comprendere quanto sottile sia il confine fra il relativismo e il nichilismo,
quando il relativismo non sia temperato da un dogma minimo che definisca per lo
meno che cosa sia un individuo, e metta al riparo da ogni attacco la sua
irrinunciabile dignità. Un dogma minimo, insomma, che di evangelico non ha
pochissimo. Speriamo che il quarantennale del Sessantotto, per gli
individualisti liberali, non trascorra invano.