Sesso e sangue: così crollò il mito dei Casati nell’alta borghesia del 1970

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Sesso e sangue: così crollò il mito dei Casati nell’alta borghesia del 1970

20 Agosto 2010

Un uomo, accecato dalla gelosia, uccide a fucilate sua moglie e l’amante di lei, poi punta l’arma contro se stesso e si suicida. Oggi un fatto del genere, in tempi di privacy e di cronache sempre più veloci, si esaurirebbe in una “breve” sul giornale. Se si trattasse di personaggi noti potrebbe occupare un’apertura per uno, massimo due giorni.

La vicenda dei coniugi Casati Stampa di Soncino al contrario tenne col fiato sospeso un intero paese, in un tempo (era il 1970) in cui i cronisti erano allenati a grattare la patina dei fatti gettando uno sguardo spesso impietoso, a volte deformato dal moralismo, ma in molti casi illuminante.

E così la tragica conclusione del menage a trois tra una coppia blasonattissima e uno studente universitario della piccola borghesia, svela vizi privati, drammi esistenziali. Sarebbe ardito tentare un’analogia con i recenti casi di politici “pizzicati” in evasioni erotiche assortite: qui si scorge quasi sempre solo la superficie dei fatti, utilizzati come strumento per gettare nel discredito il malcapitato di turno.

Il delitto di via Puccini invece ha suscitato nell’opinione pubblica interrogativi scomodi su quei retroscena della vita “normale”, trattati con uno sforzo di comprensione, che negli scandali di oggi sembra del tutto scomparso.

Via Puccini dunque, un elegante stradina che affaccia su Villa Borghese, a Roma. Al civico 11 c’è un elegante palazzo dell’800. L’attico, composto dagli ultimi due piani dello stabile è interamente occupato dalla dimora del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, “Camillino” per gli amici.

Il nuobiluomo rincasa la domenica del 30 agosto 1970 dopo una rapida battuta di caccia nel vicentino, a Valdagno, nelle tenuta dei suoi amici, i Marzotto. Ritira la posta da un tavolino all’ingresso, tra le carte c’è anche un bliglietto in busta chiusa della consorte. Chiede a uno dei suoi domestici, Adriano, di non essere disturbato da nessuno, se non dalla moglie Anna, che a breve dovrebbe arrivare in compagnia di un giovane amico, Massimo.

Il marchese si chiude nello studio dove conserva i suoi fucili da caccia e oltre 300 bestie imbalsamate, i suoi trofei. Passa a trovarlo la figlia Annamaria, il maggiordomo è irremovibile nel far rispettare la consegna del padrone. La ragazza se ne va e chiama il padre al telefono pochi minuti dopo. La conversazione, racconterà, è affettuosa, i due si salutano con l’intesa di incontrarsi di lì a qualche giorno. Poi il marchese si mette alla scrivania è scrive un biglietto alla moglie: “Muoio perché non posso sopportare il tuo amore per un altro uomo. Quel che faccio lo devo fare. Perdonami. E qualche volta vienimi a trovare”.

Si alza, estrae dalla panoplia la carabina Browning e riempie il caricatore. Alle 19 arriva la signora, Anna Fallarino in Casati, assieme al giovane, Massimo Minorenti. Con loro c’è anche un amico del ragazzo, Cesare, che preferisce rimanere nel cortile della palazzina. I due invece raggiungono il padrone di casa nello studio, chiudendo dietro di loro le porte. Dopo pochi minuti in via Puccini il silenzio è squarciato da quattro esplosioni, quasi in sequenza.

Qualche istante dopo un altro colpo, una manciata di secondi più tardi un’ultima deflagrazione. Cesare sale di corsa le scale, pensa al peggio. Il domestico gli sbarra la strada, per lui un ordine del “signore” è legge. Ubbidienza cieca, al limite dell’ottusità, da maggiordomo d’altri tempi.

Il servitore decide di chiamare la sorella del marchese, la donna accorre da Rocca di Papa, ai Castelli Romani. Entra nello studio e trova lo scempio. La cognata morta su una poltrona; Massimo, senza vita, raggomitolato dietro un tavolino; Camillo è in terra col volto disintegrato dall’ultima fucilata, si è sparato appoggiando la canna al mento. Accorre la polizia, seguono i cronisti.

Alla scena del delitto si aggiungono pochi paticolari. La prima a morire è stata la signora Anna Fallarino, raggiunta da un colpo al braccio e uno al volto. Il ragazzo invece è stato ferito prima alla schiena mentre cercava riparo dietro al tavolo, rovesciato in terra, poi alla nuca. Il marchese è tornato verso la moglie e ha fatto fuoco contro la sua gola, ma la donna era già morta, a giudicare dalla scarsa quantità di sangue uscita dallo squarcio. Alla fine Camillino ha ricarito l’arma con due cartucce, ha appoggiato il calcio del fucile e si è sparato in faccia.

A mezzanotte la polizia chiude il caso e i giornalisti fanno in tempo a chiudere l’edizione della sera: omicidio-suicidio. Il movente, la gelosia.

Massimo era l’amante della signora Casati, il legittimo marito non poteva tollerare l’affronto. I fatti, per l’appunto. Ma agli occhi di quei cronisti quel quadro d’insieme sembra disarmonico. Quella lettera d’addio scritta dal marchese è la nota stonata più evidente. Se mette per iscritto che vuole suicidarsi e addirittura chiede alla moglie di andarlo a trovare (al cimitero di famiglia a Muggio) di tanto in tanto, perché quella strage? Cosa si sono detti i tre per scatenare quella mattanza? Bisogna risalire dietro ai fatti, capire chi sono i protagonisti. E subito c’è la prima sospresa.

Il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino tollerava da mesi e senza particolari patemi le frequentazioni della di lui signora Anna Fallarino, donna indiscutibilmente bella, con il giovane Massimo Minorenti, studente fuori corso di Scienze Politiche. Un giovane di 25 anni di belle (e stroncate) speranze che poco aveva a che fare con le esclusive frequentazioni dei coniugi, intimi delle casate Torlonia, Lancellotti, San Felice et similia. Che c’entrava quel povero ragazzo con la signora? I giornalisti lo chiedono ad amici e conoscenti dei tre defunti. Raccolgono le prime voci.

Anna praticava il nudismo, a volte col marito si spingeva in spiagge “plebee” come Coccia di Morto a Fiumicino, frequentate da avieri e militari di leva. O in luoghi all’aperto ma appartati come ville e giardini pubblici. Perchè? Il mistero lo svela un benzinaio che ha avuto a che fare con i coniugi Casati. “Lui era uno zozzone. Piano piano ha fatto in modo che io e sua moglie restassimo soli dietro a un cespuglio. Tra una carezza e l’altra io e la signora abbiamo fatto l’amore, e quello ci saltellava intorno facendo un sacco di foto”. E’ il colpo di scena, il vaso di pandora è aperto.

Nelle redazioni arrivano in forma anonima decine di scatti con Anna tra le braccia di sconosciuti, o mentre posa nuda in atteggiamenti a volte provocanti a volte decisamente osceni. Spunta anche il diario dalla copertina verde del marchese, dove il nobiluomo annotava i dettagli di ogni incontro e ne teneva addirittura la contabilità. Gli sconosciuti che spingeva tra le braccia della consorte infatti venivano pagati.

Camillino, che per anni aveva eluso il fisco (gli impietosi cronisti anche questo avevano scoperto), era meticoloso nel compilare questo singolare libro mastro. Gli aspetti più scabrosi della vicenda ora sono sotto gli occhi di tutti. Ma il mosaico è incompleto. Perché quella tragica fine? I giornalisti ricostruiscono l’intera esistenza di Camillo Casati Stampa di Soncino e della moglie Anna Fallarino.

Lui, questo è noto, era uno degli aristocratici più in vista del paese. Non era solo nobile, era anche ricchissimo. Possedeva terreni sterminati che nemmeno il suo amministratore conosceva fino in fondo. Tra questi la villa di Arcore poi divenuta la residenza del premier Silvio Berlusconi, un’altra villa in Brianza con 30 stanze. Aveva nelle sue disponibilità l’intera isola di Zannone, vicino Ponza. Era titolare dell’intero pacchetto azionario di un’importante compagnia di assicurazioni.

La sua esistenza si divideva tra viaggi in Italia e all’estero nei migliori hotel, prime alla Scala, serate mondane, battute di caccia e la passione per le parole crociate. Nato nel 1927, si era sposato con Lidia Holt, una soubrette, da cui aveva avuto un’unica figlia. Aveva conosciuto Anna Fallarino quando era ancora sposata con l’ingegner Giuseppe Drommi (compagno di scuola di Camillino al liceo Massimo) durante una movimentata serata a Cannes, nel 1958. In quell’occasione l’allora signora Drommi era stata oggetto delle pressanti attenzioni del playboy Porfirio Rubirosa, scatenando l’ira del marito, che schiaffeggiò il latin lover. Alla zuffa intervenne anche il marchese, il più acceso tra i difensori della virtù offesa di Anna. Fu allora che tra i due scattò la scintilla.

Nel giro di un anno Camillo e Anna lasciarono i rispettivi consorti e si sposarono, dopo aver ottenuto gli annullamenti dei loro precedenti matrimoni dalla sacra Rota. Un’unione a detta di tutti felice, eppure i cronisti scoprono che il “vizietto” del marito si manifestò già alla prima notte di nozze, tramite un imbarazzato ma accondiscendente fattorino d’albergo. Una doppia vita dunque, un matrimonio fondato su un solido amore ma tenuto in equilibrio da un sesso malato.

Camillo si eccitava nel vedere la sua bellissima moglie rapinata nella carne da maschi giovani e prestanti. Lui, con i suoi 43 anni portati non proprio alla grande, allampanato e calvo. Lei invece con i suoi 41 anni che nessuno le avrebbe dato, alta e dalle forme perfette. Una bellezza da “antica romana” azzarda un cronista. In rete compaiono ancora sue immagini digitando “Anna Fallarino” nei motori di ricerca.

Anna nel bel mondo ci era arrivata scalando i gradini più bassi. Originaria di un paesino nel beneventano, si era trasferita a Roma, nel popolare quartiere dell’Alberone, da uno zio. Commessa in un negozio e fidanzata con il garzone di una macelleria, aveva tentato la strada dell’indossatrice e dell’attrice. Poi era stata notata dall’ingegner Drommi, che non si era fatto sfuggire quell’irresistibile fanciulla. Dall’aristocrazia borghese era poi arrivata a quella di stirpe sposando Camillo. Aveva imparato come stare nei salotti, anche se con un’ombra di disagio, come se si sentisse sempre in difetto.

E aveva imparato ad amare il marito assecondandone i desideri sessuali. Era stato così per dieci anni. Fino a quando non era comparso Massimo. Non uno degli innumerevoli incontri occasionali decisi dal marchese, ma un ragazzo che Anna aveva conosciuto da sola e a cui il marito non aveva dato peso. Ma la donna per la prima volta aveva visto nello studente la possibilità di affrancarsi da quell’estenuante menage. Pur consapevole che quella storia con uno studente di 25 anni non poteva avere futuro.

Per la prima volta il cuore di Anna apparteneva a un altro. E questo il marchese non poteva sopportarlo.

Torniamo alla scena del delitto. Cosa possono essersi detti i tre, meglio ancor a Camillo e la moglie? Nella lettera indirizzata a Camillo, Anna aveva scritto che di fatto era innamorata di Massimo, ma che per quieto vivere era disposta a lasciarlo. Può darsi che il marito poco prima di chiudere la sua esistenza e quella degli altri due abbia manifestato l’intenzione di farsi da parte, magari non di uccidersi. E’ plausibile che abbia chiesto alla moglie di ricordarlo con affetto, di conservare un buon ricordo di lui. Non è peregrino pensare che Anna, esausta per tutti quegli anni passati a soddisfare le voglie del marito facendosi preda per degli sconosciuti, e forte del suo nuovo amore, gli abbia negato con disprezzo questa eventualità. Magari accampando anche richieste di denaro, ma questa è un’ipotesi meno certa. Ecco la chiave di lettura più vicina per terminare il puzzle della mattanza in via Puccini. Il quadro torna, e tutto questo partendo dai pochi scarni elementi raccolti la sera del 30 settembre 1970 sul luogo del delitto.